UGO ALDRIGHI. Sguardi inediti dentro la città
Prezzo: Incluso nel biglietto del museo
Nel ventennale dalla scomparsa di Ugo Aldrighi (Brescia, 1917-2003) il Museo Diocesano di Brescia coglie l’occasione per raccontare al pubblico alcuni aspetti inediti della biografia e dell’opera dell’artista bresciano, cantore di scene di quotidianità all’interno di quel quartiere Carmine cui egli stesso appartenne e ove oggi ha sede il Museo Diocesano di Brescia. Nelle sale affacciate sul chiostro, in mostra un nucleo ditredici opere pittoriche – molte delle quali inedite, provenienti dagli eredi e da raccolte private – ove volti, personaggi e scene di vita quotidiana restituiscono l’istantanea di un’atmosfera vissuta in prima persona ancor prima di essere immortalata. Sullo sfondo di vicoli, palazzi e piazze – da via Porta Pile a Largo Formentone, dalla torre di Porta Bruciata alla Pallata – si trova ritratta la vociante moltitudine, composta da fruttivendoli e bambini che giocano a palla, arrotini e prostitute, che animava il pittoresco quartiere, emblema della Brescia popolare, almeno fino agli anni Novanta del Novecento.
Un ritratto partecipe di una umanità variegata e scomposta, caratterizzata da vitale dinamismo e sempre affaccendata, che Aldrighi restituisce con fragranza cromatica fatta di impasti rosso vivo, azzurri e gialli, racchiusi in solidi contorni e stesi su supporti di juta trattati a gesso. I soggetti scelti documentano il legame viscerale dell’autore bresciano con la sua città, di cui è indagata l’animata popolosità con bonaria partecipazione. Una ulteriore conferma di ciò, ora, la si trova negli appunti posti a margine delle pagine di diario vergate dall’artista stesso: scritti rimasti inediti sino ad oggi, divenuti oggetto di studio in relazione alla mostra grazie alla disponibilità della figlia Livia, a cui si deve l’emersione di una preziosa documentazione inesplorata. «Come piange e ride questa gente, che vive nella strada come in casa propria, in una libertà che dà anche l’impressione di gente senza scrupoli o valori. Non è vero. Bisogna conoscerli e poi ci si ricrede. Viva il Carmine» (Diario, 1979).
Si tratta di «corsivi aggregati di appunti che registrano, via via, le condizioni meteorologiche della giornata, le cronache familiari, gli incontri e le letture, oltre che le gite, in compagnia di amici pittori e critici – nota la curatrice Michela Valotti, nell’agile catalogo che accompagna la mostra. – Una scrittura privata, utile a comprendere aspetti meno noti della personalità dell’uomo e dell’artista, da cui affiorano considerazioni sul senso delle cose, sulle relazioni umane, senza dimenticare gli inediti riscontri intorno alle mostre visitate». Dai diari è possibile evincere le fonti da cui il bresciano attinse, ed i grandi Maestri da lui amati, osservati in occasione di mostre temporanee allestite in Italia. «Le parole non sono sufficienti per esprimere quanto ho provato davanti a simili opere» scrive infatti Aldrighi alla fine di maggio del 1975, a margine dell’antologica dedicata a Ligabue, a Gualtieri, visitata due volte. Nel giugno 1978, a proposito di Marc Chagall, annota «una mostra che lascerà un segno profondo nelle anime sensibili dove oltre alla grande poesia, c’è questa inventiva che tutto capovolge, ogni regola, ogni rigore ma che vibra di un umanesimo e simbolismo meravigliosi».
Di Kandinskij apprezza, attraverso una monografia ricevuta in dono, le opere del periodo astrattista, mentre di Rubens esalta la «tecnica meravigliosa». Parte integrante del percorso espositivo allestito al Museo Diocesano, è infine l’opera Via Cesare Beccaria e la torre di Porta Bruciata (1978, olio su juta) donata degli eredi Aldrighi alla Biblioteca Queriniana di Brescia, e dal 2017 ivi esposta in modo permanente. UGO ALDRIGHI (1917-2003) Figlio di un decoratore, non segue regolari studi accademici, bensì frequenta le lezioni di Tita Mozzoni e di Emilio Rizzi. La sua prima personale data al 1972 quando, ritiratosi dal lavoro per problemi di salute, l’attività dilettantistica diventa professione. Difficile inquadrarne la poetica entro cornici storiografiche assestate. La naïveté del pittore si sostanzia in pennellate materiche, stese su supporti di juta preparati a gesso. Le campiture definiscono composizioni di grande libertà espressiva, influenzata talvolta dall’irruenza cromatica di Ligabue, talaltra dalle suggestioni sognanti di Chagall.