Mosè Bambino calpesta la corona del faraone
Autore: Andrea Celesti (e aiuti) Olio su tela - 198,3 cm x 136,5 cm
L’opera pittorica, la cui attuale attribuzione iconografica è stata assegnata da Agosti e Lucchesi Ragni (1993, p. 36), raffigura in primo piano sei personaggi mentre sullo sfondo scorgiamo un piccolo borgo che si affaccia su una laguna. Il grande drappo dal panneggio non definito funge da intermediario tra il primo piano e lo sfondo.
“Lo stato di conservazione è mediocre e compromette in parte gli effetti legati alla peculiare tecnica esecutiva di Celesti, con il colore, steso in parte a macchie, sfruttando la ruvidità della tela, e parte in velature molto sottili” (M. Pavesi in Bona Castellotti, Lucchesi Ragni, 2011, p. 59). Il supporto originario è stato successivamente foderato, lo intravediamo nella fascia superiore dell’opera, mentre nell’area mediale superiore il supporto appare incavato, creando una piccola traccia ovoidale più scura. La tela è cucita verticalmente e lascia una traccia visibile sulla pellicola pittorica. Quest’ultima presenta una piccola lacuna in basso a destra, altre lacune sono visibili in alto nell’area mediana dell’opera. Nelle aree in cui il colore è stato steso con meno corposità, in particolare sul drappo della quinta teatrale e nella parte superiore del paesaggio, la pellicola pittorica ha perso parte del volume originario depositandosi nelle cavità della trama della tela, ricalcandone l’andamento.
L’opera raffigura Mosè Bambino che calpesta la corona del faraone, l’episodio è narrato nel IX libro delle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio. Lo storico narra della principessa Thermut, che avrebbe condotto Mosè, all’età di tre anni, al cospetto del padre, il quale gli avrebbe posto sul capo la corona che il fanciullo avrebbe gettato a terra, calpestandola. Fu allora che lo scriba dei sacrifici, interpretando il gesto come augurio nefasto per il futuro dell’Egitto, si sarebbe scagliato contro Mosè, istigando il sovrano perché lo facesse uccidere. La figlia del faraone è identificabile non solo dalla preziosità degli abiti, ma soprattutto dalla raffigurazione delle punte dorate della corona che le sovrasta il capo. L’oggetto regale non è molto vistoso anzi il dorato della corona, anche se è circondato da un fievole bagliore luminoso, poco spicca sullo sfondo color bruno–giallognolo. In questa visione della lettura dell’opera, riconosciamo alle spalle del faraone, dipinto con abiti orientaleggianti, la figura dello scriba che gli bisbiglia all’orecchio il nefasto suggerimento bloccato contestualmente dall’intervento della principessa. Difatti l’arto superiore destro di Thermut sembra bloccare lo sguaino della spada del faraone.
Alcuni attributi iconografici hanno condotto a una interpretazione fuorviante dell’opera, indicata col titolo “Giudizio di Salomone” (Mucchi Della Croce, 1954, fig. 20 p. 121). Questa lettura del dipinto non risulta convincente a causa della presenza di un elemento iconografico dal quale non possiamo prescindere ovvero il piccolo puttino che calpesta la corona del faraone.
Le ipotesi formulate sulla provenienza del dipinto risultano non semplici da verificare. Probabilmente l’opera apparteneva ad un ciclo di dipinti del Celesti per una dimora privata bresciana. Sulla base della settecentesca guida del Carboni (1760), che menzionava nel Palazzo Uggeri alla Pace a Brescia “tre quadri d’Istoria Sacra… tutte opere del Cav. Celesti”, Boselli propose, per la tela in esame, una provenienza da Palazzo Uggeri (1955 e 1963; accettata anche da Marelli, 2000, p. 231) e contestualmente le mise in relazione a tre altre opere: Il sacrificio della figlia Jefte, La nascita di Giacobbe e Esaù e Mosè e la prova dei carboni ardenti (Agosti, Lucchesi Ragni, 1993, p. 37). Tuttavia come sostengono G. Agosti ed E. Lucchesi Ragni, i primi due dipinti non sono accostabili stilisticamente agli altri, che sono di forma ovale, fatto che rende difficoltoso immaginare un’appartenenza al medesimo ciclo figurativo. Meno probabile è invece la proposta di Mucchi e Della Croce che partendo dall’annotazione di una provenienza dal Municipio attestata da una nota di Giuseppe Ariassi (1876, p. 45), proponevano invece un’ipotetica, antica collocazione nel Palazzo della Loggia, che però non trova riscontri (Panazza 1968, p. 150 e Pallucchi 1981, p. 270).
La distanza di quest’opera dal Celesti maturo, capace di raccogliere appassionanti consensi sul Garda e nella città di Brescia, fu sempre avvertita tanto da far ipotizzare sia a Mucchi e Della Croce che a Boselli e Panazza una datazione precoce: i primi la fanno risalire al 1684 (ovvero la data in cui il pittore si sposta da Venezia a Rovigo), mentre i secondi fanno risalire l’opera prima del 1688 (data in cui risulta documentato uno dei soggiorni benacensi del pittore); (Agosti, Lucchesi Ragni, 1993, p. 37). Nonostante l’opera cominci a segnare un distacco dalle prime opere “tenebrose” veneziane del primo periodo (come il grande telero per San Zaccaria, del 1684 circa), “il contrasto chiaroscurale è una sicura spia di anteriorità rispetto all’ultima fase dell’artista, coincidente con lo schiudersi del XVIII secolo” (M. Pavesi in Bona Castellotti, Lucchesi Ragni, 2011, 61).
Le caratteristiche stilistiche del dipinto hanno condotto gli storici dell’arte a pareri discordanti in merito all’attribuzione dell’opera. Per Mucchi e Della Croce i tratti fisiognomici dei volti del nostro dipinto sono quelli “dell’opera migliore del Maestro, col modo caratteristico di figurare gli occhi, molto aperti e con l’iride nera, a pallottola, rilevata da precisi lumini” (Mucchi, Della Croce, 1954, p. 48). Inoltre considerando la qualità stilistica esecutiva della principessa e la somiglianza del piccolo Mosè con quello della “Sacra Famiglia” della Tosio Martinengo, i due storici giungono alla conclusione che quest’opera, anche se presenta delle scorrettezze è da attribuire al cavalier Celesti.
Divergente è il pensiero di Agosti e Lucchesi Ragni, i quali ritengono che lo stile del dipinto rappresenti un unicum nella produzione artistica di Celesti, sia per il segno nitido e definito dei contorni delle figure che per la scelta cromatica dai toni spenti. L’opera appare distante dalle pennellate vibranti e fluide dai “forti sbattimenti di luci e ombre” (Agosti, Lucchesi Ragni, 1993, p. 37) più abituali nell’opera del Celesti. Inoltre, la tela qui esaminata non conosce quel plasticismo robusto, ammorbidito da una luce calda e avvolgente, che connota il dipinto eseguito nel 1680 per il Paramento Civran nel duomo di Vicenza (su cui cfr. Agosti, Lucchesi Ragni, 1993, p. 38). Proprio per questo i due studiosi arrivano alla considerazione che l’opera sia uscita dalla bottega dell’artista veneziano, per mano di un allievo capace di riproporre con calligrafica accuratezza l’originale dipinto del maestro, ma non le peculiari cifre stilistiche della sua pennellata spumata. In una posizione intermedia si colloca Maria Cristina Lovat, la quale pur ritenendo il dipinto in gran parte autografo riconosce una partecipazione della bottega nell’esecuzione dell’opera, per la rigidità nella costruzione delle figure e per la qualità “spenta, un po’ fiacca” della tavolozza (Lovat, 1993, pp. 36-37).
Dal punto di vista compositivo notiamo una struttura giocata sulle diagonali parallele che danno alla scena un che di drammatico e particolarmente mosso e sospeso, infatti i personaggi biblici riprendono ognuno il gesto dell’altro (Panazza, Boselli, 1974, 156).
In un’ulteriore analisi sia del disegno che della qualità pittorica, notiamo alcune difformità tra il nucleo delle donne col bambino e quello di destra composta dal faraone, lo scriba e “un’anziana velata”. Nel primo gruppo si rileva una certa scioltezza nel raffigurare le membra e una coerenza realistica nel riprodurre i panneggi, tipica dell’opera del Maestro, mentre nel secondo nucleo notiamo una consistente secchezza compositiva e una mancanza di naturalezza soprattutto nell’anziana donna alla destra del faraone. In particolare, notiamo che l’avambraccio e la mano alzate che sbucano alle spalle del faraone sembrano disarticolati e non anatomicamente convincenti. Una simile carenza disegnativa suggerisce di valutare la presenza, in quest’area del dipinto, di un aiuto di bottega.
Inoltre, se ci soffermiamo sugli abiti, notiamo anche qui una certa dissonanza tra la parte sinistra e quella destra dell’opera: nella prima possimo ammirare una facilità nel riprodurre coerentemente i panneggi e un’eleganza sia nel disegnare abiti semplici come quello indossato dalla figura femminile di sinistra, che la mastria nell’evocare la preziosità delle stoffe e la raffinatezza degli abiti femminili veneziani secondo il gusto pittorico dell’epoca. Tale precisione si dissolve progressivamente nella porzione di destra dell’opera in particolare si nota una certa sommarietà negli abiti dei due personaggi in secondo piano, caratteristica che si accentua nel drappo della quinta teatrale. Anche la tavolozza risulta più equilibrata e ricca nella porzione di destra e più spenta e povera di distacchi cromatici sulla destra.
L’opera è da intendersi come espressione artistica della bottega del Celesti, in cui, con ogni probabilità, il focus centrale è stato sviluppato primariamente dal maestro, mentre le parti secondarie sono state realizzate dai suoi collaboratori. Va ricordato che della nostra opera esiste una una replica autografa, di qualità leggermente più elevata, in una raccolta privata genovese, come segnala Camillo Manzitti (comunicazione scritta, cit. da M. Pavesi in Bona Castellotti, Lucchesi Ragni 2011, p. 61).
Bibliografia: Agosti, Lucchesi Ragni, 1993, p. 36; M. Pavesi in Bona Castellotti, Lucchesi Ragni, 2011, p. 59; Mucchi Della Croce, 1954, fig. 20 p. 121; Agosti, Lucchesi Ragni, 1993, p. 37; Ariassi, 1876, p. 45; Panazza, 1968, p. 150; Pallucchi 1981, p. 270; Agosti, Lucchesi Ragni, 1993, p. 37; M. Pavesi in Bona Castellotti, Lucchesi Ragni, 2011, 61; Mucchi, Della Croce, 1954, p. 48; Agosti, Lucchesi Ragni, 1993, p. 37; cfr. Agosti, Lucchesi Ragni, 1993, p. 38; Lovat, 1993, pp. 36-37; Panazza, Boselli, 1974, p. 156; M. Pavesi in Bona Castellotti, Lucchesi Ragni 2011, p. 61.
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Bibliografia generale:
Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, tradotto dal greco e illustrato con note dell’abate Francesco Angiolini, Paolo Fumagalli Editore, Firenze, 1844.
A.M. Mucchi, C. Della Croce, Il pittore Andrea Celesti, Silvana Editoriale, Milano, 1954.
G. Panazza, C. Boselli, La pinacoteca Tosio Martinengo, Servizio Propaganda e Sviluppo della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, 1974.
R. Pallucchini, La pittura veneziana del Seicento, Electa, Milano, 1981.
- Agosti, E. Lucchesi Ragni, Andrea Celesti nel Bresciano. Per il restauro del ciclo di Toscolano (1678-1712), Brescia, 1993.
- M. Pavesi in M. Bona Castellotti, E. Lucchesi Ragni, Pinacoteca Tosio Martinengo, Catalogo delle opere Seicento e Settecento, Comune di Brescia Marsilio, 2011, pp. 59-61.
William MacDonald, Il commentario biblico del discepolo Antico Testamento, CLV editore, Pößneck, 2013.
R. D’Adda, Pinacoteca Tosio Martinengo, Skira Editore, 2022.
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Università Cattolica del Sacro Cuore
Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici
Laboratorio di riconoscimento delle Opere Pittoriche (Prof. S. Bruzzese Prof. M. Pavesi)
a.a. 2021-2022
Scheda di catalogo di Natascia Ricci