Chiesa dei Santi Faustino e Giovita
STORIA DELL’EDIFICIO
La chiesa di San Faustino e Giovita è dedicata ai Santi Patroni di Brescia.
Un primissimo edificio intitolato a Santa Maria in Silvia fu distrutto nel 819 da un incendio. Si decise subito la ricostruzione della chiesa, consacrata nel 843 dal vescovo Ramperto, che pose sulla sommità del campanile un gallo segnavento, passato alla storia come il gallo di Ramperto. L’originale si trova oggi nel museo civico di Santa Giulia, mentre una fedele copia svetta ancora sul campanile, che conserva la sua struttura medievale.
Un’altra ricostruzione dell’edificio risale al XII secolo. La chiesa romanica aveva una cripta per le reliquie dei patroni. Un nuovo cantiere inizia nel 1622, dando infine alla chiesa l’aspetto attuale.
ESTERNO
La facciata in marmo di Botticino è conclusa nel 1711 ed è a due ordini divisi da una fascia che riporta un’iscrizione.
L’impostazione generale è barocca. È abbellita dalle statue di Sante Callegari il Vecchio con San Faustino e Giovita accanto al portale e i santi vescovi Onorio e Antigio nella parte alta.
Il monastero annesso alla chiesa venne chiuso nel 1797 ed i monaci benedettini furono costretti ad andarsene. Fu poi usato a fini militari fino al 1980 per poi passare in proprietà al Comune. Oggi ospita una delle sedi dell’Università Statale di Brescia.
La chiesa è normalmente aperta al culto e diventa protagonista indiscussa della città nel giorno in cui si festeggiano i Santi Faustino e Giovita, il 15 febbraio.
INTERNO
L’interno della chiesa è diviso in tre navate.
La navata centrale è coperta da una lunga volta a botte. Le navate laterali sono separate da quella centrale usando un motivo architettonico e strutturale inedito per Brescia: la serliana, usata fino a quel momento solo come decorazione.
La serliana, un arco a tutto sesto fiancheggiato simmetricamente da due colonne, permette di avere una ottima visuale pur mantenendo il sistema a tre navate, secondo l’impostazione antica della chiesa.
Da notare lungo le navate laterali gli altari, le colonne marmoree e le decorazioni che li incorniciano, frutto di una ricerca coloristica e di gusto volta a mostrare fasto ed eleganza.
ALTARE DELLA NATIVITÀ
Grande tela con la Natività di Gesù, uno dei capolavori di Lattanzio Gambara sull’altare baroccheggiante attribuito a Santo Callegari il Vecchio. Sotto l’altare si trova l’urna marmorea di Sant’Antigio, vescovo morto prima del IX secolo e abate di questo monastero per diversi anni.
L’altare è chiamato della Natività perché ospita la pala con la Natività di Gesù, dipinta da Lattanzio Gambara dopo la metà del XVI secolo.
La struttura dell’altare è molto ricca ed articolata. Su plinti di marmo lavorati a commesso si alzano coppie di colonne di breccia.
Il complesso timpano a capanna multicolore reca al centro uno scudo in marmo bianco riccamente lavorato a motivi vegetali e testine d’angelo con al centro la colomba dello Spirito Santo, che irrompe tra raggi di colore giallo.
Intorno al timpano vi sono tre angeli dalle forme salde e floride, due sono inginocchiati ed uno è seduto. Due vasi dello stesso marmo delle colonne da cui spuntano foglie di palma dorate concludono la scenografica decorazione d’insieme.
Si ritiene che l’autore di questo capolavoro sia Sante Callegari il Vecchio, capostipite della famosa famiglia di scultori attivi tra XVII e XIX secolo.
Sante probabilmente imparò a Roma i modi del classicheggiante Alessandro Lagardi. Fu poi allievo di Antonio Raggi, a sua volta discepolo del barocco Bernini. Seppe quindi coniugare queste due tendenze in opere raffinatamente ricercate.
La Natività di Lattanzio Gambara è da alcuni anni considerata il suo capolavoro, da altri un esito mediocre del manierismo padano.
Al centro del dipinto Maria guarda amorevolmente il Bambino, descritto con un ardito scorcio. Intorno a loro si dispongono i vari personaggi.
Da sinistra osserviamo il San Giovannino, una fanciulla bionda che srotola delle fasce, San Giuseppe che osserva un pò in disparte e vari pastori. In secondo piano si apre un’amena veduta con fortificazioni ed un gregge al pascolo. Chiudono la scena come quinte teatrali un’infilata di colonne corinzie a sinistra ed un rustico edificio diroccato a destra. In alto graziosi angeli volano nella luce dorata della gloria dei cieli.
La presenza delle rovine al posto della mangiatoia si diffonde in pittura dal XV secolo. Simboleggia la fine del mondo pagano dovuta alla venuta del Redentore.
Lo stile del Gambara è influenzato da Raffaello e da Giulio Romano, quindi il nostro pittore unisce una vena classica alle arditezze manieriste. Mentre la fantesca a sinistra ricorda i modi raffaelleschi, il pastore di spalle a destra rimanda a quelli di Giulio Romano.
Tutta la composizione è giocata su un delicato equilibrio di gesti, posizioni e colori che sembrano dirompere dal centro dove si trova il Bambino, ma che la bravura del Gambara contiene e addomestica in una scena dal sapore dolce.
Altre suggestioni emiliane e cremonesi arricchiscono lo stile del pittore unite alla tradizione di rustica quotidianità tipica bresciana.
ALTARE DI SAN BENEDETTO
Questo altare venne eretto su iniziativa dell’abate Orazio Barbisoni tra il 1646 ed il 1649 per ospitare la reliquia del braccio di San Benedetto, che il monastero di Montecassino promise in cambio del braccio di San Faustino.
La reliquia di San Benedetto fu custodita nella Cattedrale mentre l’altare veniva realizzato e doveva poi esser portata in solenne processione nella chiesa di San Faustino, ma in realtà non abbandonò mai il Duomo.
L’abate Barbisoni ottenne nel frattempo varie reliquie di Santi benedettini tra cui la mascella di San Placido, che andò a sostituire nel 1553 il famoso braccio mai giunto. Un’iscrizione sulla parete di fondo a destra ricorda l’opera del Barbisoni ed una a sinistra l’arrivo della venerabile reliquia di San Placido.
L’altare venne progettato e realizzato da Giovanni Carra, appartenente ad un’importante famiglia di scultori bresciani, che condizionò il gusto barocco locale del Seicento.
Normalmente Giovanni operava con il fratello Carlo, ma l’altare di San Bendetto pare essere l’unica opera progettata e portata a termine individualmente.
L’altare è giocato sull’alternanza di marmo nero e bianco, ottenendo un effetto di insieme elegante e scenografico. Il fronte della mensa è incorniciato da due angeli cariatidi, tipologia molto diffusa nel Seicento, i quali poggiano su elaborati piedistalli e reggono sul capo capitelli ionici. Lungo il basamento dell’ancona vi è il tabernacolo che presenta due colonnette in breccia, movimentando dal punto di vista coloristico l’apparato decorativo.
Ai lati dell’altare salgono quindi due colonne tonde e una semiquadrata sul fondo, le quali danno senso prospettico all’insieme e creano una nicchia che ospita la statua di San Benedetto inginocchiato. Il fondale fu pitturato da mano antica e poi ridipinto da Sante Cattaneo con una veduta di Montecassino ed angeli in volo.
La statua dal sapore manierista riprende un’usanza diffusa a Roma e importata dal mondo ellenistico e romano, che prevedeva il corpo nero e le mani ed il capo in bianco. Si notino la minutezza con cui è descritta ogni piega dell’abito e la serietà con la quale è reso il volto del Santo, abbastanza vivo e reale da far pensare ad un ritratto.
Bellissimi i capitelli corinzi sui quali poggia la trabeazione aggettante. Il timpano spezzato presenta volute e dentelli. Al centro delle belle volute, su un dado, vi è lo stemma benedettino con la scritta centrale Humi/ li/ tas.
L’effetto emotivo- devozionale dell’intero apparato è tipico del XVII secolo, quando talvolta i gruppi plastici posti sugli altari traducevano teatralmente la storia sacra. Quindi, il Santo in preghiera è l’attore che si muove su uno studiato palcoscenico di marmo per intercedere per la salvezza dell’umanità.
L’APOTEOSI DEI SANTI FAUSTINO, GIOVITA, BENEDETTO E SCOLASTICA
La zona del presbiterio fu splendidamente decorata da Lattanzio Gambara tra il 1558 e il 1559.
Nel 1743 un incendio distrusse tutta l’area. L’anno successivo iniziò la ricostruzione ed i nuovi affreschi furono realizzati da Giandomenico Tiepolo, figlio del più famoso Gianbattista.
Il soggetto è l’Apoteosi dei Santi Faustino, Giovita, Benedetto e Scolastica. Sulla parete sinistra del presbiterio una grande tela sempre del Tiepolo mostra l’Intervento dei Santi Patroni in difesa di Brescia assediata da Niccolò Piccinino. Dopo questo evento miracoloso del 1438 Faustino e Giovita divennero ufficialmente patroni della città.
Gli studiosi sono concordi nel ritenere che nella fase di ideazione Giandomenico sia stato aiutato dal padre, mentre poi avrebbe dipinto personalmente l’intera scena.
I Santi condotti in cielo sono disposti lungo una diagonale obliqua che parte dal basso a destra per salire verso sinistra.
Si vedono innanzitutto due soldati di cui uno regge un vessillo: sono i Santi Faustino e Giovita dedicatari della chiesa.
Salendo con lo sguardo troviamo San Benedetto con il bastone pastorale, che contraddistingue vescovi e abati. Benedetto fu il fondatore del monachesimo occidentale, infatti il ricciolo del bastone è girato verso di lui e ciò indica che è a capo di una comunità chiusa quale è un monastero.
Chiude la teoria dei santi Scolastica, sorella gemella di Benedetto, vestita da suora poiché fu la fondatrice del monachesimo femminile. La sua veste nera svolazza sulle nuvole dal tenue colore aranciato.
Benedetto e Scolastica partecipano alla gloria di Faustino e Giovita perché il monastero annesso alla chiesa apparteneva all’ordine benedettino.
Ogni santo è scortato in cielo da uno scenografico intrico di angeli, masse di nuvole accese da un’incandescente luce gialla coprono parte delle finte architetture dipinte e si muovono con un moto circolare e ascensionale, lasciando intravedere un profondissimo cielo azzurro, uno spiraglio di infinito.
Intorno alla scena centrale sono dipinti a monocromo i Quattro Padri della Chiesa d’Occidente: Papa Gregorio Magno, Sant’Agostino e Sant’Ambrogio abbigliati da vescovi e San Girolamo. Quest’ultimo è addirittura nascosto da sbuffi delle nuvole che calano dall’alto e si riconosce per la presenza del leone.
Giandomenico inizia il suo apprendistato nella bottega del padre intorno ai tredici anni. Probabilmente non è dotato della sua stessa fantasia, ma è un eccellente esecutore dei modi tiepoleschi.
La volta del coro di San Faustino non può che suscitare meraviglia per l’arditezza dei giochi prospettici, per la soavità dei colori che si accordano l’un l’altro e per il maestoso effetto complessivo.
La grande libertà compositiva ed il generale tono esuberante della scena dipinta sono il riflesso di una società che in questo frangente storico, alla metà del Settecento, è felice.
STENDARDO DEL SANTISSIMO SACRAMENTO
Le due tele sono note come lo Stendardo di Romanino o del Santissimo Sacramento. Sono le due facce di uno stendardo processionale, dipinto da Romanino tra il 1535 ed il 1540 circa.
Gli fu commissionato dalla Scuola del Santissimo Sacramento della chiesa di San Faustino e conservato in origine nella omonima cappella. Era usato in occasione della Festa del Corpus Domini, la quale coinvolgeva l’intera città in una lunga processione festosa.
Dal Seicento la faccia con la Messa di Sant’Apollonio rimase nascosta, perché lo stendardo fu appeso contro una parete della cappella e sulla parete opposta fu sistemata una copia della Messa, opera di Girolamo Fausti. Oggi lo stendardo è finalmente ricomposto e restaurato.
La scena della Resurrezione ricorda sia il pannello centrale del Polittico Averoldi, conservato nella chiesa dei santi San Nazaro e Celso, capolavoro di Tiziano giunto a Brescia nel 1522, sia la scena di analogo soggetto, opera di Albrecht Durer, contenuta nella Grande Passione (1497- 1510).
Il Cristo è raffigurato trionfalmente risorto mentre lascia il sepolcro scoperchiato, la tomba ormai vuota è circondata da un gruppo di soldati romani che dormono ignari del grande evento. Sullo sfondo di un cielo nuvoloso spunta l’alba resa con delicati colori.
Il lato con la Messa di Sant’Apollonio racconta un episodio molto noto all’epoca, contenuto nella Legenda de Sancto Faustino e Jovita. Il vescovo Apollonio si trovò una notte privo degli strumenti per celebrare messa. Mentre pregava con Faustino e Giovita, miracolosamente liberati dal carcere dove erano stati rinchiusi, apparvero una tovaglia di lino, le ostie, un calice e quattro lumi.
Romanino mostra il vescovo ed i due santi cavalieri in preghiera, mentre ricevono il Santissimo da due angioletti incensanti, tra la folla di fedeli bresciani in fiduciosa attesa e presenti al miracolo.
La scena è molto simile a quella dipinta sempre da Romanino per la chiesa di Santa Maria in Calchera, circa quindici anni prima; in quest’ultima tela sono però diversi l’ambientazione e gli abiti di Faustino e Giovita, abbigliati da gentiluomini contemporanei al pittore.