Chiesa di Sant’Agata
ESTERNO
La chiesa di Sant’Agata ha probabili origini longobarde (VI- VII secolo). I Longobardi nell’area dell’attuale Piazza della Vittoria eressero il Cordusio, nuovo centro del potere politico, e tutto intorno si estendeva un quartiere di case di legno e paglia. Sant’Agata era invocata come protettrice contro gli incendi.
La chiesa ha avuto per secoli dimensioni piccole e forme semplici fino alla prima grande riedificazione, avvenuta durante il XV secolo. Risale a questo periodo il grande presbiterio a cavallo del fiume Garza, che scorreva a ridosso dell’abside. Tra Quattrocento e Cinquecento viene realizzato il portale d’ingresso decorato poi con le statue delle Sante Agata, Lucia e Apollonia di Antonio Callegari, risalenti al Settecento.
FACCIATA
La facciata a capanna è del XV secolo. Il fianco sud fu rifatto in occasione della costruzione di Piazza della Vittoria (1929 – 1932) con l’aggiunta del porticato, successivamente chiuso per metà nel 1966 per ricavare la nuova sagrestia.
L’abside ha due alte monofore incorniciate da formelle in terracotta policroma smaltata del XV secolo. Accanto all’ingresso sul retro della chiesa si può notare un basso arco in pietra bianca riempito di pietre per tamponarlo: era il ponte sul fiume Garza edificato per sorreggere il nuovo presbiterio.
INTERNO
Entrando nella chiesa si percepisce subito un’atmosfera seria e silenziosa, accentuata dall’illuminazione naturale, piuttosto scarsa.
La pianta è a navata unica con abside sopraelevata ed è coperta da volte a crociera, poggianti su pilastri a fascio. Nel XVI secolo furono aggiunte le cappelle laterali e la balconata praticabile presente su tre lati.
AFFRESCHI DEL PRESBITERIO
Nel 1458 venne approvato il progetto di ampliare il presbiterio al di là del Garza, costruendo un ponte a cavallo del fiume. Il nuovo presbiterio, a terminazione piatta, è di forma quadrangolare e sopraelevato rispetto al piano della navata.
Nel 1475 la potente famiglia Avogadro si arrogò le spese per la decorazione della volta e della parete terminale del presbiterio. In cambio, ebbe il privilegio di riservare una tomba per i propri membri al centro dell’area presbiteriale.
Il tema della parete di fondo è una grandiosa Crocifissione che esalta il significato del corpo di Cristo offerto in sacrificio per la salvezza dell’umanità, mentre gli angeli piangenti ne raccolgono il sangue nei calici.
L’affresco è stato datato al 1475, ma il suo autore è ignoto. Si ipotizza un pittore lombardo, capace di eseguire un buon disegno, con potenza nel modellato e grandiosità nell’impostazione generale.
Il Cristo è composto, possente, sopporta il dolore come un re: solo le dita contratte dei suoi piedi tradiscono lo spasmo della sofferenza. Gli angeli sono invece tristi e piangono torcendosi le mani. La parte inferiore, che prevedeva le figure della Madonna, di San Giovanni e della Maddalena ai piedi della croce, fu coperta con la messa in opera della pala d’altare.
Completano la composizione la Vergine col Bambino tra due Sante sulla sinistra ed i Santi Giacomo Apostolo e Antonio Abate a destra.
Anche la volta del presbiterio fu affrescata nel Quattrocento. Tuttavia, il ciclo fu danneggiato sulla fine del Cinquecento dai rimaneggiamenti di Pietro Marone (1548-1603) che fu incaricato di ridecorare l’intera area presbiteriale.
Il pittore, allievo del Veronese, spezzò i rigidi costoloni gotici della volta a crociera in favore di una volta a vela, più spaziosa e adatta ai suoi affreschi. Realizzò dodici grandi figure di angeli, profeti e sibille entro medaglioni sagomati.
Sulla parete di fondo murò due monofore ai lati della pala d’altare e vi dipinse Cristo in croce sotto un cielo grigio di nubi. Ai piedi della croce stavano le figure di Maria, San Giovanni, la Maddalena e il donatore che finanziò la nuova decorazione.
Fino alla metà del Seicento la chiesa probabilmente appariva bella, ma sobria, ancora goticheggiante nell’architettura e poco adatta al gusto del tempo. Il prevosto Polini ordinò la bellissima decorazione a fresco della navata e di fronte ai nuovi colori delle pitture di Ghitti e Sorisene, il presbiterio doveva sembrare ormai sbiadito. Quindi nel 1683, don Aurelio Polini chiamò Pietro Avogadro, allievo del Ghitti, per una nuova, ricca e fastosa decorazione. Per la terza volta si metteva mano alle parete e alla copertura del presbiterio.
L’Avogadro rinfrescò i colori del Marone e decise di incorniciare i medaglioni della volta con stucchi, opera del Ferraboschi. Furono murate le quattro alte finestre laterali, aprendo i due ampi lunettoni, che si vedono ancora oggi. Dove erano le quattro finestre si crearono quattro nicchie per le statue degli Evangelisti a grandezza naturale, in legno dipinto di bianco per simulare il marmo, opera di Sante Callegari il Vecchio e dei suoi figli. Alternati alle statue furono sistemati i tondi in stucco con opere di Giuseppe Tortelli, raffiguranti il mistero pasquale, cioè i momenti della vita, morte e resurrezione di Cristo.
Nel 1963, mentre procedevano i restauri dell’affresco di Pietro Marone, cadde un pezzo d’intonaco, mostrando sotto di esso una testina d’angelo. Altre prove, chiamate sondaggi, rivelarono effettivamente la presenza di un consistente dipinto conservato sotto quello allora visibile e cautamente si procedette alla rimozione dell’affresco del Marone per liberare dopo tanti secoli il Cristo crocifisso di mano ignota e gli angioletti intorno a lui. La critica da subito e unanimemente ritenne di qualità superiore gli affreschi ritrovati rispetto a quelli posteriori. Nel 1973 si riaprirono anche le monofore occultate dal Marone, ridando alla parete di fondo il suo elegante aspetto quattrocentesco.
Per quanto riguarda la volta si preferì non procede alla rimozione delle decorazioni più moderne, perché si ritenne che il Marone, mutando la volta da costolonata a vela, sicuramente ruppe in maniera troppo estesa i precedenti affreschi, che si immaginano coevi al bel Cristo in croce.
CAPPELLA DEL SANTISSIMO SACRAMENTO
La cappella viene realizzata nel 1598, spostando l’altare dedicato al Santissimo Sacramento dalla parete nord a quella sud, dove viene sfondato il muro ed occupato parte del cimitero allora esistente. La cappella fu poi rimaneggiata ad inizio Settecento e a fine Ottocento.
Sotto la cappella era stata aperta una profonda fossa comune, chiamata crypta magna, nella quale si discendeva per una porticina aperta sotto la piccola sagrestia della cappella. La cripta è stata ristrutturata negli anni 1850-1860 e ogni anno, il 2 novembre, il clero della parrocchia attraverso la piccola porta scendeva nella cripta e celebrava le esequie. La cripta è stata poi completamente distrutta nel 1932 nei lavori per la realizzazione di piazza della Vittoria. Le lapidi e i frammenti architettonici furono inizialmente raccolti nel piccolo cortile interno della canonica, per finire poi disperse.
All’esterno della cappella si ammirano due affreschi del tardo Cinquecento di scuola bresciana, attribuiti a Pietro Marone: l’Ultima Cena sulla destra, che risente degli influssi del Moretto nella classica impostazione delle figure intorno alla mensa. Esse presentano una certa “ruvidità” che ne diviene principale caratteristica, il soggetto è estremamente classico per una cappella del Santissimo Sacramento e la sua collocazione al di fuori dello spazio dell’altare ne anticipa il tema.
Così come lo anticipa l’altro affresco, del medesimo autore, con la Cena Pasquale degli Ebrei. Il tema è più desueto ed è tratto dal Libro dell’Esodo. Il brano in questione è oggi una delle letture della messa della notte di Pasqua, ma per il tempo in cui fu realizzato denota una sua originalità coraggiosa, specie per la vicinanza al “ghetto”, ancora non denominato così, ebraico. La cena rappresentata con fedeltà al testo sacro, mostra i commensali in piedi, le vesti cinte, i calzari ai piedi ed il bastone da viaggio pronto, a sottolineare la precarietà e la fretta con le quali il banchetto viene consumato.
All’interno spicca il notevole complesso barocco dell’altare. L’apparato decorativo è arricchito da due putti a figura intera che reggono i simboli eucaristici e dal paliotto ad intarsi marmorei di fiori e uccellini. Risale al 1710-1716 quando si decise di rifare parte dell’altare e l’incarico fu affidato a Domenico Corbarelli, proveniente dall’ambito fiorentino e specializzato nella lavorazione delle pietre dure. Il bel tabernacolo con lapislazzuli e piccoli elementi ornamentali in bronzo è un esempio convincente della capacità dell’artista nel manipolare la materia, le colonne di marmo incorniciano la pala d’altare ma sono anche la base per gli angioletti sul timpano curvilineo e spezzato, dove al centro, nel tripudio del cesto di frutta, appare l’immagine di Dio Padre. L’insieme è eccellentemente scolpito e levigato nella vibrante pietra di Carrara. L’enfasi dinamica sottopone le figure a torsioni eccessive, ma che nel complesso trasmettono una equilibrata vitalità.
Entro due nicchie vi sono due statue: la Fede di Domenico Corbarelli sulla sinistra e la Carità di Sante Calegari sulla destra. Le Fede con il calice in mano è uno stupendo esempio di levitazione e morbidezza. La Carità con il cuore in mano appare un po’ retorica nel gesto, più goffa e pesante. Entrambe le statue fondono molto bene la ricchezza plastica col tono caldo del marmo, offrendo alla luce una molteplicità di ingolfature profonde, di scivolamenti repentini, esprimendo contemporaneamente un senso di perfetto decoro.
La Pietà di Antonio Balestra è la pala dell’altare, ottimo esercizio pittorico del 1724, di gusto veneziano, ma improntata al classicismo romano, che piaceva alla classe colta della Brescia del tempo. La Madonna, al culmine della composizione piramidale, appare fredda nella sua posizione statuaria, ieratica ed impassibile davanti al figlio morto, colto in un profondo e drammatico scorcio ai piedi del sepolcro. Il dipinto è caratterizzato da una luminosità estesa e pacata, dalla bellezza del colore.
I due grandi ovali sono di Antonio Pellegrini e raffigurano Elia confortato dall’angelo, a destra, e Davide che riceve i pani da Achimelech, a sinistra. In Elia e l’angelo la scena non è narrata ma contemplata: il profeta nella sua ruvidezza contrasta piacevolmente con l’eleganza dell’angelo. Nell’altro ovale l’episodio biblico è narrato con una piacevolezza tiepolesca: la scelta di un’ambientazione all’aria aperta dei soggetti permette una luminosità intensa: le carni d’alabastro di Davide risplendono tra le quinte di controluce degli altri soggetti. La grafia è fluida e luminosa, con quell’aerea levità di tocco che già fanno presagire la delicatezza e la grazia di tanta pittura settecentesca.
I piccoli tondi con Ecce Homo, Gesù nell’orto e la Deposizione sono attribuiti sempre a Tortelli. Il pittore crea un mondo fantastico, intenso, che deve la sua suggestione al contrasto fra i toni caldi, rossicci, e quelli freddi, grigi e turchini della tessitura cromatica. Il quarto tondo con la Resurrezione è opera moderna di Oscar di Prata rimasta al solo stadio di bozzetto.
MARTIRIO DI SANT’AGATA
La pala dell’altar maggiore, incorniciata da una soasa con fregi dorati, è opera di Francesco Prata da Caravaggio. Essa raffigura Sant’Agata in croce tra i Santi Pietro e Lucia a sinistra ed Agnese e Paolo a destra. La datazione classica la colloca intorno all’anno 1522, ma per alcuni studiosi va retrodatata al 1519.
Francesco Prata da Caravaggio è noto nella nostra città dal 1510. In seguito al violento Sacco di Brescia del 1512, andò a Cremona e dopo a Padova. Tra il 1520 ed il 1527 viaggiò spesso tra la sua natia Caravaggio, che faceva parte del ducato di Milano, e Brescia. Non fu certo l’unico artista che dalle terre milanese si trasferì a Brescia, anche il pittore trevigliese Zenale ed il compaesano Stefano Lamberti, abile architetto ed intagliatore, giunsero ed operarono con successo a Brescia. Dopo il 1527 non si hanno più notizie di Francesco, nemmeno la data di morte.
Sebbene oggi sia poco conosciuto e non abbia avuto una gran fortuna critica, ai suoi tempi doveva essere un pittore in vista ed apprezzato. Nel 1517 risulta membro del collegio dei pittori presso la Scuola di San Luca di Brescia, istituzione senza dubbio prestigiosa. Tuttavia, oggi sono note solo cinque sue opere, due delle quali nella nostra città. Una è la pala che stiamo ammirando, raffigurante il Martirio di Sant’Agata, l’altra è lo Sposalizio della Vergine nella chiesa di San Francesco.
Francesco Prata imitò moltissimo il Romanino, anzi, pare avesse libero accesso alla sua bottega e ai suoi disegni preparatori. Lo si nota con molta evidenza confrontando, per esempio, la Salomè della collezione Cavallini Sgarbi con la romaniana Salomè conservata alla Althepinacoteke di Monaco.
Gli studiosi, che di recente si stanno molto interrogando sulla figura di questo pittore, ritengono che Francesco non sia moto abile nel costruire scene articolate ed affollate, ma tende piuttosto a concentrarsi sulle singole figure, motivo per cui i cinque Santi della pala di Sant’Agata appaiono un po’ legnosi. Ha poi la tendenza a disegnare le braccia leggermente troppo corte rispetto all’anatomia generale, a panneggiare gli abiti in maniera innaturale e a dar ai visi espressioni troppo dolci o troppo arcigne.
Al di là di questi giudizi alquanto severi, nella nostra pala il paesaggio dipinto alle spalle dei Santi è delizioso. Le vivaci figurette dei soldati e le architetture sulla sinistra danno un respiro più movimentato ed ampio alla scena.
I cinque Santi in primo piano sono disposti a semicerchio, pratica abbastanza diffusa tra i pittori del tempo: lo si può notare anche nella Sacra Conversazione di Romanino, custodita sull’omonimo altare in San Giovanni Evangelista, realizzata una decina di anni prima. Proprio come nella scena costruita dal Romanino, Francesco fa sì che i suoi Santi guardino altrove, tranne quello di sinistra, che ha lo sguardo rivolto verso di noi. In questo caso si tratta di San Pietro, riconoscibile per gli oggetti che tiene in mano: il libro e le chiavi del Paradiso, perché nei Vangeli c’è scritto che a lui Gesù consegnò le chiavi del Regno dei Cieli. Sono chiavi simboliche, spirituali, che danno a Pietro l’autorità di iniziare la predicazione del Cristianesimo. e sono due, perché, secondo un’interpretazione, una apre la strada che porta a Dio, l’altra è la chiave della via che Dio usa per venirci incontro. Un’altra caratteristica tipica di San Pietro è costituita dal colore dei suoi abiti: blu-verde la tunica, giallo il mantello.
Accanto a Pietro sta Lucia, la quale tiene con la mano sinistra un piattino con posati i suoi occhi: si racconta infatti che venne accecata come punizione per la sua fede cristiana, e con la mano destra indica delle lunghe tenaglie.
Al centro vi è Agata, crocifissa, ma rappresentata senza dolore. La raffigurazione di Agata in croce è piuttosto strana, poiché non venne martirizzata in questo modo. Nella sua passione si narra che le furono asportati i seni con enormi tenaglie, quelle che sta indicando Lucia, ed è il motivo per cui il pittore la rappresenta denudata sul seno. Si dice che Agata avesse quindici anni, che vivesse a Catania e che miracolosamente guarì da questo supplizio. Fu allora ordinato di bruciarla, ma un terremoto costrinse tutti a sospendere l’esecuzione. Agata fu portata morente in cella e dopo poco si spense. La sua insolita raffigurazione crocifissa deve quindi essere considerata simbolica.
A destra vediamo Agnese, trafitta da un colpo alla gola, nel modo con cui si uccidevano gli agnelli e per questo viene sempre rappresentata con un agnellino.
Infine, ecco Paolo, serio come Pietro, stempiato, con la barba lunga ed i suoi abiti classici: tunica verde e mantello rosso. Regge con la mano sinistra il libro e con la destra la spala, simbolo del suo martirio. Essendo Paolo cittadino romano, subì la pena di morte secondo la legge romana: fu decapitato.
La rappresentazione dei martiri e dei Santi doveva generare devozione e spingere le persone ad imitare il loro esempio: compiere il bene in nome di Cristo, nonostante le persecuzioni e le sofferenze. Ricordiamo poi che ogni Santo divenne patrono contro qualche malanno o disgrazia, garantendo al fedele devoto una sorta di assicurazione sulla vita.
Sant’Agata in particolare era invocata come protettrice contro gli incendi.
VOLTA
L’interno della chiesa di Sant’Agata, Sorisene e Ghitti, danno vita ad una delle migliori decorazioni barocche di Brescia.
Nel 1673 il prevosto Aurelio Polini incarica Pietro Antonio Sorisene e Pompeo Ghitti di affrescare la navata.
Sorisene, della cui formazione non si sa praticamente nulla, è un pregevole pittore di quadrature della seconda metà del Seicento, cioè dipinge architetture in prospettiva, scenografiche e fortemente illusionistiche. Il termine quadratura o quadraturismo potrebbe derivare dal Vasari che chiamò lavoro di quadro tutto ciò per cui si adopera la squadra e le seste e dal Seicento in poi si usò per indicare le rappresentazioni di spazi architettonici. In questo secolo il quadraturismo diventa un genere autonomo, che ha come scopo il dipingere finte strutture architettoniche, le quali creano l’illusione dello sfondamento dei soffitti, e la presenza di articolate architetture lungo le pareti, moltiplicando lo spazio.
Per questo nuovo genere servivano artisti specializzati, chiamati pittori di quadratura o quadratini, tra cui il Sorisene, continuatore dello stile di Tommaso Sandrini (1575- 1630), riconosciuto dal Lanzi (1809) capostipite della scuola prospettica bresciana. Nella prima metà del Seicento Sandrini elabora composizioni estremamente “barocche”, ma superata la metà del secolo i quadraturisti diventano più razionali, senza rinunciare all’esuberanza e la teatralità dello stile barocco.
Sorrisene lavora con Pompeo Ghitti (1631- 1704 circa), la cui biografia è più conosciuta: è un pittore di figura, cioè a lui spettano i personaggi che popolano le architetture del Sorisene. Ghitti si forma presso Ottavio Amigoni, a sua volta alunno di Antonio Gandino. Dopo aver coltivato le proprie radici bresciane e dopo esser cresciuto nel clima manierista della città, si trasferisce a Milano, dove completa la sua formazione. Ovviamente si confronta anche con i pittori veneziani, mantenendo però una gamma cromatica meno squillante e meno calda, in linea con i colori piuttosto scuri, che andavano di moda nella Brescia seicentesca. Dopo questa straordinaria impresa di Sorisene si perdono le tracce, quindi la volta di Sant’Agata viene considerata la sua ultima opera nota.
La divisione dei ruoli tra quadraturista e pittore di figure è indicativa dell’altissima specializzazione dei cantieri di questo periodo.
Lo schema che propongono i due pittori si ritrova in tutte le quadrature bresciane: in coincidenza del centro prospettico si apre il finto cielo che accoglie la scena con i personaggi, la quale mostra un trionfo pagano o sacro, a seconda che ci si trovi in un palazzo nobiliare o in una chiesa.
In Sant’Agata Ghitti realizza le tre spettacolari Ascensioni, che si incastonano nelle architetture di Sorisene, ampliando il senso di sfondamento del soffitto della volta, il quale si proietta verso l’alto cielo azzurro, seguendo lo slancio di archi, colonne, balaustre, tribune, balconate, mensole, cornici, pennacchi e dentelli.
Ghitti ci mostra nel cielo dipinto l’Assunzione di Maria nella prima campata partendo dall’ingresso: Maria è scortata in cielo da un festoso corteo d’angeli e putti, un tema caro alla cultura figurativa bresciana, nato nel XIII secolo in scultura per poi diffondersi in pittura.
Nella seconda campata ammiriamo l’Assunzione di Gesù, che è nel centro, in piedi, ormai prossimo a salire in Paradiso. Sulle nuvole accanto e sotto di lui una teoria di Santi lo osserva e gli rende lode.
Infine, nella terza campata troviamo la Gloria di Sant’Agata. La scena è mossa e affollata, Agata viene sollevata verso la Trinità, rappresentata da Gesù, da Dio Padre e dalla colomba dello Spirito Santo, e tutt’intorno gruppi di angeli musicanti e angioletti con la corona del martirio in mano le fanno festa.
La tecnica usata dai due artisti è tipicamente utilizzata per decorare grandi superfici murarie: si tratta dell’affresco.
L’affresco è una tecnica antica di pittura su muro, sfrutta il fatto che stendendo il colore su uno strato d’intonaco umido, attraverso un processo chimico detto carbonatazione, il colore viene inglobato nell’intonato che va seccandosi e diventa così parte integrante del muro. È importante che le superfici siano ben preparate, isolando i muri dall’umidità, che sbriciolerebbe l’intonaco e con esso il dipinto.
La pittura illusionistica prosegue con successo anche nel Settecento: le architetture diventano più ardite e i cieli infinitamente più profondi, le figure si fanno più piccole, i colori più tenui, l’atmosfera più ariosa. Tutto questo concorre a dare ancor di più l’impressione che lo spazio si dilati. Un esempio in tal senso si può ammirare anche nella chiesa di Sant’Afra