Duomo Vecchio
ESTERNO
Il Duomo Vecchio è stato eretto su una precedente chiesa paleocristiana, chiamata Santa Maria Maggiore e fondata dal vescovo Filastrio tra IV e V secolo D.C.
Il Duomo Vecchio risale al XI-XII secolo ed è intitolato a Santa Maria Assunta. È chiamato anche Rotonda, perché ha una particolare forma a pianta centrale, ispirata al modello del Santo Sepolcro di Gerusalemme.
Tra il 1881 al 1899 fu compiuto un restauro della chiesa ad opera dell’architetto Luigi Arcioni, che riportò alla luce il severo aspetto medievale della Rotonda, modificato nel corso dei secoli con aggiunte di varie epoche.
La struttura è realizzata in pietra locale di Medolo ed è costituita da due corpi cilindrici sovrapposti.
La parte bassa è un vasto ambulacro, scandito da una sequenza di finestre binate; su di esso si imposta il tamburo superiore con finestre più piccole, intervallate da lesene. In corrispondenza dei punti cardinali queste finestre sono sostituite da oculi tondi; manca però quello occidentale, poiché era superfluo.
Questa parte era nascosta dall’imponente torre campanaria che si impostava dove oggi c’è l’ingresso. La torre è crollata nel 1708 a seguito proprio dell’apertura dell’ingresso, che rese fragile la struttura. La torre nell’epoca più antica potrebbe aver svolto anche la funzione di torre del tesoro, custodendo le preziose reliquie delle Sante Croci.
I primitivi ingressi erano due a livello della strada romana e conducevano all’interno della chiesa attraverso un passaggio oggi chiuso ed usato per il fonte battesimale. L’attuale ingresso risale al 1571 e dopo il crollo della torre fu ricostruito in forme barocche.
INTERNO
Oltrepassato il portale d’ingresso si percepisce immediatamente l’antichità della Rotonda e la solenne austerità del gusto romanico.
L’interno della chiesa mostra un vano centrale a livello degli ingressi originali, un ambulacro anulare più alto, una cupola emisferica, che poggia su otto massicci pilastri ed un profondo presbiterio con cappelle laterali.
SARCOFAGO DEL VESCOVO BERARDO MAGGI
Berardo Maggi fu vescovo di Brescia dal 1275 e primo signore della città dal 1298. Morì poi nel 1308. La sua salma fu fatta deporre in un sarcofago magnificamente decorato dal fratello Matteo, suo successore nella signoria cittadina.
Il sarcofago è stato realizzato quindi nella prima decade del Trecento ad opera di un maestro locale, raffinato ed aggiornato. Forse in origine era sormontato da un baldacchino, cosa abbastanza frequente all’epoca, e collocato presso l’altare maggiore. Venne poi trasferito durante il XVI secolo vicino alla cappella delle Sante Croci e nel 1920 presso l’ingresso principale dove si trova ancora.
È realizzato in marmo rosso di Verona, ha una struttura rettangolare ed è chiuso da un coperchio a forma di tetto. Su un lato dello spiovente il presule è raffigurato disteso sul letto di morte, vestito con abiti pontificali e circondato dagli ecclesiastici officianti le sue esequie. Sull’altro lato è raffigurata la pace del 1298 tra guelfi e ghibellini, avvenuta ad opera del vescovo Maggi. Questa scena può essere letta anche come il giuramento di fedeltà al vescovo- signore da parte del clero e del popolo.
La tipologia del sarcofago è ravennate ed è opera di passaggio dal romanico al gotico. Risulta molto aggiornato sul piano iconografico, infatti era cosa recente quella di porre figure giacenti su monumenti funebri. Il vescovo è rappresentato a dimensioni naturali, esposto alla vista come si esponevano le salme di uomini illustri.
Ha su di sè i simboli del suo potere ed il volto è così caratterizzato che forse proviene da una maschera funebre. La scena non ha accenti drammatici, piuttosto si avverte la serenità dovuta alla certezza che il defunto si è addormentato in Cristo, nella pace, come vuole la fede e come recita la dottrina cristiana. Dietro la salma del vescovo molti personaggi sono accuratamente descritti nonostante le piccole dimensioni. Senso plastico e naturalismo caratterizzano ogni singola figura.
Questo gusto per l’aneddoto naturalista e la scelta di descrivere il corteo funebre sono rari nell’Italia settentrionale di inizio Trecento. Ci sono invece esempi nell’area transalpina e in Toscana.
Come era uso a quel tempo, alla testa e ai piedi del defunto sono rappresentati i quattro Evangelisti con il libro aperto, corpo umano e testa animale. Hanno il compito di vegliare il sepolcro fino all’ultimo giorno.
Negli acroteri, cioè negli ornamenti angolari, sono rappresentati entro archi a tutto sesto i santi vescovi Apollonio e Filastrio, con il Vangelo nella sinistra e la destra alzata in segno benedicente e i Santi Faustino e Giovita, uno in abiti sacerdotali, l’altro vestito come diacono.
Sui lati corti vediamo intagliata nel marmo una croce patente, simbolo di trionfo sulla morte, e San Giorgio che uccide il drago, tema insolito per una tomba, simbolo della vittoria del bene sul male. Il San Giorgio è estremamente dinamico e dettagliato.
Sull’altro spiovente è raffigurata la pace del 1298. La scena è divisa in tre momenti ma risulta molto unitaria grazie alle mura merlate che racchiudono la rappresentazione.
A sinistra un corteo di laici ed ecclesiastici esce dalla cattedrale di San Pietro de Dom preceduto dal vescovo benedicente. Al centro, all’interno di un romanico ambiente absidato che nella forma ricorda la Rotonda vi sono tre personaggi intorno ad un altare riccamente decorato con motivi geometrici. Un alto funzionario cittadino presenta gli strumenti del giuramento, croce e Libro, ad un patrizio ben vestito che pone la mano sul Vangelo per prestare giuramento di pace e probabilmente anche di fedeltà al vescovo – signore. In secondo piano un notaio o araldo con tocco e toga legge il giuramento dalla pergamena che ha tra le mani.
A destra una folla di oltre trenta figure si accalca per assistere alla scena. Alle spalle racchiude tutto un’elegante architettura civile. I personaggi sono descritti con vivacità, mentre si abbracciano, si baciano, tengono le mani giunte, gioiscono o piangono, in un generale clima lieto per la pace raggiunta. Anche qui cogliamo la capacità dell’artista di caratterizzare ognuno attraverso il vestito, le capigliature, il viso ed i gesti. Infine, negli acroteri vediamo i volti di Pietro e Paolo.
Il monumento ha lo scopo di conservare e glorificare la memoria del defunto ed unisce al ricordo anche intenti didattici e moraleggianti. La figura di Berardo Maggi come padre e pacificatore di Brescia è però frutto di una rielaborazione successiva alla sua morte e mentre il vescovo era morente, cittadini ed ecclesiastici non esitarono ad appropriarsi dei suoi beni mobili, secondo una sorta di consuetudine- diritto dell’epoca, detta ius spolii.
Il vescovo Maggi morì il 16 ottobre del 1308. Il fratello Matteo lo sostituì nel governo della città ed il nipote Federico, figlio di Matteo, già canonico della cattedrale, divenne vescovo di Brescia.
CRIPTA DI SAN FILASTRIO
La cripta di San Filastrio, che si fa risalire all’VIII-IX secolo, quando il vescovo Ramperto fece traslare qui le reliquie di San Filastrio nell’anno 838, vescovo bresciano che promosse la costruzione delle due cattedrali di San Pietro de Dom e Santa Maria Maggiore.
La traslazione di reliquie con processioni solenni era tradizione dei vescovi carolingi per ottenere il consenso del popolo e creare un’unità sociale grazie ad eventi che coinvolgevano tutta la città.
Dopo un mese durante il quale i fedeli poterono venerare le reliquie vescovili, queste vennero chiuse in un’arca marmorea, riscoperta poi solo nel 1456 sotto l’altare della cripta.
La cripta che possiamo vedere oggi non è quella costruita al tempo di Ramperto, modificata poi quando la cattedrale paleocristiana di Santa Maria Maggiore fu ricostruita nelle forme romaniche della Rotonda.
L’originaria cripta era semianulare con corridoi ad angolo retto che permettevano al fedele di girare intorno al sarcofago contenente le reliquie sante. Con il posizionamento dei grandi pilastri che sorreggono la cupola della Rotonda ed il nuovo presbiterio, la cripta fu rimpicciolita ed anche gli originali ingressi riposizionati.
Lungo i muri perimetrali si possono notare suspensurae di reimpiego, provenienti da un edificio romano preesistente. Questo edificio poteva essere una domus con impianto termale oppure qui erano presenti le terme occidentali dell’antica Brixia. Infatti le suspensurae venivano usate negli impianti di riscaldamento romani per mantenere il pavimento sopraelevato e permettere all’aria calda, generata da bracieri o da una stanza adibita a fornace, di circolare riscaldando l’ambiente.
Altre suspensurae si trovano nella parte destra del transetto del Duomo, dove è possibile ammirare anche alcuni mattoni cavi, sempre tipici del mondo romano, nei quali circolava l’aria che riscaldava i muri delle stanze.
Anche le colonne e i capitelli della cripta sono materiale di reimpiego, secondo un’usanza tipica del periodo medievale, per cui gli edifici più antichi venivano spogliati dei materiali che potevano essere riutilizzati per nuove costruzioni. Questo materiale di reimpiego risale massimo al IX secolo e ciò permette di datare la cripta. La loro sistemazione originaria potrebbe tuttavia aver subito modifiche con la costruzione della Rotonda.
La cripta mostra nel suo insieme una grande unità, ma osservando bene colonne e capitelli si nota che sono diversi uno dall’altro, posizionati in modo da cercare simmetria e armonia, valore che doveva caratterizzare tutte le comunità cristiane del tempo.
Le tre absidi della cripta forse risalgono alla struttura primitiva. Nell’abside centrale si trovano lacerti di affreschi, purtroppo molto deteriorati a causa dell’umidità, che raffigurano Cristo in gloria fra angeli ed due vescovi, forse Filastrio e Apollonio, e nella volta a crociera tre vescovi ed un angelo, tutti databili tra XI e XII secolo.
CAPPELLA DELLE SANTE CROCI
La cappella custodisce il Tesoro delle Sante Croci, ossia un tesoro fatto di reliquie preziose come i reliquiari che le contengono. Sono oggetti sacri e di oreficeria, pensati per essere ammirati nei secoli, simboli di fede, ma anche di potere e prestigio.
La cappella ospita sui lati due ampie tele: a sinistra l’Apparizione della croce a Costantino prima della battaglia di ponte Milvio, realizzata da Grazio Cossali nel 1605. Sul lato destro, ad opera di Antonio Gandino, il duca Namo di Baviera che dona alla città di Brescia la reliquia della Santa Croce.
La tela del Cossali racconta un episodio avvenuto nel 312. Nei pressi del Ponte Milvio Costantino e Massenzio si affrontano per il controllo dell’impero romano d’occidente. Costantino invoca l’aiuto di un dio per vincere ed appare in cielo una croce luminosa che reca la scritta “con questo segno vincerai” ed il giorno dopo Costantino vince, portando come insegna la croce.
Questa tela è un autentico preludio seicentesco: nel sentimento della luce, nell’amore per il dettaglio e nell’orientamento figurativo. Si realizza una svalutazione del soggetto storico e narrativo che si riduce ad un puro e semplice pretesto per un’invenzione autonoma; invenzione con una precisa inclinazione per l’evocazione di una sorta di avventura.
Siamo di fronte a una scena dinamica, d’epica cavalleresca dove il miracolo dell’apparizione della Croce è un’improvvisa folata “fantastica”, dove le increspature di colore si animano, si fanno ribollimento dell’intero tessuto cromatico, che sembra esplodere poi in fiammate abbaglianti o disperdersi in riverberi sfavillanti per sciogliersi in un vapore che investe lo sfondo scorporandolo, agitandone la composizione. Il tutto ben intonato al gusto artistico- letterario del suo tempo ancora imbevuto di reminescienze ariostesche. Certe eleganze ottiche, per esempio il cavaliere in primo piano, inducono a presupporre che il Cossali avesse presente l’omonima opera di Raffaello nelle stanze vaticane.
A far da contrappunto è collocato di fronte il dipinto del Gandino con il duca Namo che dona la reliquia della Santa Croce. L’episodio si colloca nel IX secolo, quando Namo assistendo alla traslazione dei santi corpi di Faustino e Giovita viene risanato dal sangue che inaspettatamente sgorga da essi. Come ringraziamento per la grazia ricevuta si converte ad una fede più autentica e regala a Brescia la preziosa reliquia, che ha avuto lui stesso in dono da Carlo Magno.
È questa una tela “costruita”: le figure si dispongono in simmetrie precise, in contrappunti studiati, secondo una sintassi diversa da quella Cossali. Le figure del Gandino recuperano una più densa corposità plastica, si fa più autentico l’avvenimento celebrato e assumono vita propria protagonisti e comprimari, esaltati da una luce strepitosa, che converge su di essi. La leggenda, l’evento miracoloso sono trasfusi e risolti e costituiscono l’aspetto fantastico del discorso compositivo. E si capisce allora che i contemporanei rimasero sorpresi e soddisfatti. Il segno arricciato e curvo vale ad esprimere le ricerche, che il Gandino compie, di una materia pastosa e densa, cui successivamente si dedicherà, e che in questa tela si traduce in dolcissime penombre e in luminosità diffuse.
Possiamo cogliere in questa tela un ulteriore rinnovarsi dell’arte del Gandino nella progressiva ammirazione di Jacopo Palma il Giovane. Dietro l’esempio di questo grande pittore, Gandino rinnova la gamma della sua tavolozza, ora orchestrata su tonalità di gialli e di verdi, piuttosto che su dissonanze di rossi squillanti. Dietro l’esempio di Palma ecco lo spalancarsi di un fondale, l’erigersi di architetture ed il diffondersi di un sereno e felice “plen air”. Sembra persino che il paesaggio abbia perso ogni sentore naturalistico, per rifarsi, nella sua dimensione di arazzo, ad una incorruttibile ed aulica felicità cinquecentesca. Le pose contrapposte, i gesti accentuati, la mimica calcata sono una sua interpretazione dell’avvenimento.
Nella cappella si conservavano in origine anche il gonfalone processionale della Compagnia dei Custodi delle Sante Croci ed una tela con Cristo e l’Angelo, entrambe opere del Moretto, attualmente custodite presso la Pinacoteca Tosio Martinengo e sostituite da riproduzioni fotografiche.
La cupola antistante la Cappella reca affreschi del XVII secolo, attribuiti a Francesco Giugno (o Zugno) con episodi della Passione.
PALA DELL’ASSUNTA
Questo olio su tela è una delle opere più fortunate ed ammirate del Moretto, tanto che se ne fecero copie e varianti.
L’iconografia dell’Assunta venne codificata nel XIII secolo sui rilievi scultorei delle cattedrali gotiche. Uno degli antecedenti in pittura più famosi è l’Assunta di Andrea Mantegna, conservata nella cappella Ovetari a Padova (1453-1457). Mantegna dipinge in alto la Madonna ed in basso gli Apostoli rivolti a lei, così come fa Tiziano nell’Assunta dei Frari a Venezia (1516-1518): Maria con le braccia sollevate ha sul volto un’espressione di rapimento mistico, mentre in basso gli Apostoli guardano la scena con agitazione secondo un impianto dinamico e naturalistico.
Come nella tradizione compositiva delle pale d’altare di Moretto, una coltre di nuvole divide la composizione in due piani.
Sopra tutto vi è la Vergine: guarda in alto, serena, composta, pronta a ricevere la beatitudine eterna; è alta, cilindrica, dalle vesti scanalate come una solida colonna, le mani affusolate sono raccolte sul petto. Questa tipologia di Madonna è spesso ripetuta nelle sue opere: è vestita di rosso, il colore della carnalità umana, e ricoperta di un manto dalla preziosa stoffa cangiante che insieme al bel velo bianco sono mossi da una sorta di brezza divina. Attorno a lei quattro angeli sbucano dalle soffici nuvole e dietro di loro una moltitudine di altri angioletti è immersa nella brillante luce eterna, che sale divenendo un arcobaleno, forse una trasformazione moderna della mandorla medievale.
Al di sotto di questa scena divina vi sono gli Apostoli, scomposti in gesti disparati e frenetici, sono i rappresentanti di un’umanità che assiste meravigliata, un poco spaventata, al mistero dell’Assunzione in cielo di una donna, che è la Madre di Cristo. Gli Apostoli si guardano e si parlano e pare di udire le loro voci concitate, dietro di loro si apre un cielo sereno.
La collocazione spaziale è ridotta al minimo, quasi ad appiattire l’immagine; non vi sono riferimenti architettonici, tranne un paio di gradini di una struttura non meglio identificata, acentro, in basso tra i piedi degli Apostoli. Tuttavia, l’opera appare armonica e carica di quel pathos senza eccessi che è vera firma di Moretto.
Una curiostà: la testa di San Pietro, l’apostolo centrale, non è di mano del Moretto. Intorno al 1845, mentre si eseguivano alcuni restauri nel presbiterio, una mattina la tela venne trovata tagliata in corrispondenza di quella testa. Non si scoprì il responsabile del gesto sconsiderato, nè fu possibile ritrovare la parte mancante. Fu allora chiamato il pittore Alessandro Sala a ridipingere la testa il più possibile simile all’originale perduto.
Si ipotizza che Moretto, durante un viaggio a Venezia, possa aver visto l’opera di Tiziano (in lavorazione o terminata) e l’abbia poi tradotta nel “linguaggio” locale.
Non ci sono documenti a tutt’oggi noti che indichino con certezza che questo viaggio avvenne e per alcuni, prima degli anni Venti, l’influenza del Tiziano non è evidente nelle opere del nostro pittore. Più facile ritrovare l’influenza di Bellini e Carpaccio: il primo, specialista nell’uso dei colori caldi e freddi per ottenere profondità e per rendere i personaggi corpi di colore che variano in funzione della luce; il secondo esperto anche nell’uso della geometria, oltre che del colore, per costruire le forme.
Forse Moretto conoscerà Tiziano solo dopo l’arrivo a Brescia del rivoluzionario Polittico Averoldi, che lo costringerà a confrontarsi con quel portentoso artista veneziano e ad elaborare un proprio linguaggio verso l’equilibrio della composizione e della forma.
Gaetano Panazza e Camillo Boselli (1946) ribadiscono che con quest’opera Moretto passa dalla sua giovinezza alla sua maturità e che questa Assunta sarà il prototipo per numerose Assunte bresciane posteriori. Il Gambosi (1943) invece non è d’accordo: secondo lui Moretto in quest’opera non ha ancora raggiunto l’equilibrio compositivo; a griglia geometrica che Moretto utilizzerà soprattutto dagli anni Trenta è qui presente, ma in forma embrionale, non perfettamente consapevole, strutturata e seguita.