Chiesa di San Giovanni Evangelista

STORIA DEL COMPLESSO

Secondo la tradizione, il vescovo San Gaudenzio fondò il primo nucleo della chiesa di San Giovanni Evangelista tra gli anni 400 e 402 d.C. Il suo nome originale era “Concilium Sanctorum” perché destinata ad accogliere alcune reliquie di santi raccolte dal vescovo.

Il tempio sorgeva fuori dalle mura di Brescia fino al loro ampliamento del XII secolo e fu più volte ricostruita.

Fin dal 1135 era officiata dai Canonici Lateranensi, patrocinati dall’arcivescovo di Milano. Ciò diede per diversi secoli a San Giovanni uno status di zona franca, esente dall’applicazione di disposizioni dettate dalle autorità cittadine di Brescia.

Entrando nella chiesa si percepisce subito una serena calma ed un insolito silenzio, pur trovandosi in uno dei quartieri più antichi e vivaci di Brescia.

L’interno è strutturato a tre navate, scandite da pilatri con capitelli a motivi floreali. Le pareti chiare, intervallate dai preziosi altari, danno all’edificio un aspetto elegante. La struttura di base risale tra gli anni 1440 e 1447.

La struttura di base risale al 1440- 47, con all’aggiunta nel 1509 della cappella del Santissimo Sacramento, poi modificata in stile barocco tra il 1651 ed il 1674.

 

CAPPELLA DEL SANTISSIMO SACRAMENTO

Sopravvissuto allo spostamento dell’intera cappella, restaurato in tempi molto recenti, mostra l’abilità di due dei nostri massimi pittori, Moretto e Romanino, che dipingono episodi dell’Antico e Nuovo Testamento all’insegna del tema dell’Eucarestia.

Tra il 1521 ed il 1524 i due si incontrarono e si scontrarono in un duello artistico: Moretto sulle orme di Raffaello e Romanino fedele alla sua personale poetica, più graffiante ed espressiva.

La cappella fu edificata in una posizione diversa da quella attuale agli inizi del XVI secolo, in seguito alla donazione alla chiesa di San Giovanni di una cappella per la Scuola del Santissimo Sacramento da parte della Famiglia Patini. Fu poi ridotta e modificata nel 1882.

La disposizione è ancora quella originale, nonostante le trasformazioni operate dall’architetto Rodolfo Vantini, che inoltre inserì le tele del ciclo in elaborate cornici pseudo-rinascimentali.

Le Scuole del Santissimo Sacramento nacquero a Brescia nel 1493, dopo la straordinaria predicazione del beato Bernardino da Feltre, avevano come scopo accompagnare convenientemente le processioni per il Viatico.In ogni chiesa sorse dunque un altare o una cappella destinata a conservare la presenza eucaristica di Cristo. Molti artisti del Cinquecento bresciano fecero parte di questa Scuola.

La grandiosa opera ad olio su tela eseguita da Moretto e Romanino ha come esplicita tematica l’Eucarestia in un periodo nel quale dal Nord Europa giungevano echi della Riforma luterana, che invece sminuiva la sacralità del rito eucaristico.

Romanino all’inizio di questo cantiere è già un artista maturo ed apprezzato. Moretto invece, di quindici anni più giovane, è alle prese con la sua prima grande occasione.

Il primo lavorò alla parte sinistra della cappella con temi tratti dal Nuovo Testamento: la Resurrezione di Lazzaro, la Cena in casa del Fariseo, la Messa di San Gregorio, gli Evangelisti Matteo e Giovanni ed i profeti Isaia, Ezechiele, Zaccaria, Malachia, Mosè e Abacuc.

Moretto dipinse il lato destro con episodi dell’Antico Testamento: il Sonno di Elia, la Raccolta della Manna, l’Ultima Cena, gli Evangelisti Marco e Luca ed i profeti David, Geremia, Daniele, Aggeo, Michea ed Osea.

Romanino sfoggia un linguaggio sanguigno e fortemente espressivo, Moretto è sereno ed elegante.

Sull’altare maggiore è custodita la pala di Bernardino Zenale (1456- 1526) con la Deposizione di Gesù dalla croce. Datata tra il 1504 ed il 1509, ornava fin dall’inizio la cappella del Santissimo Sacramento.

Nel lunotto sopra si ammira l’Incoronazione della Vergine di Moretto, qui collocata in seguito ai restauri del 1882 che diedero alla cappella l’aspetto attuale.

Fuori vi sono due Angeli Adoranti di Alessandro Maganza (XVI- XVII secolo) e due opere di Giuseppe Nuvoloni con l’Adorazione dei Magi e le Donne al Sepolcro.

 

CRONOLOGIA DELLE TELE DI MORETTO E ROMANINO

Non sappiamo come i due pittori si divisero gli argomenti da trattare- Forse Romanino, più anziano e dotato di maggiore autorità, scelse per sé gli episodi del Nuovo Testamento, più vicini alla contemporaneità. Moretto si dovette quindi confrontare con l’Antico Testamento.

Il contratto prevedeva il termine dei lavori nel 1524. Ma è probabile che in quell’anno fosse terminata solo la parte alta della cappella e che i lavori proseguirono invece per circa un ventennio.

Secondo una scansione cronologica diffusamente accettata le lunette dono databili al 1521-1523, i profeti al 1522-1524.

In quegli anni gli spunti che influirono su Romanino furono molteplici: Tiziano, Lotto e Pordenone, che aveva conosciuto nel cantiere del Duomo di Cremona. Moretto è invece influenzato da Raffaello e dal colorismo veneto.

La parte bassa eseguita da Moretto appare addirittura manierista e si può spiegare con l’arrivo a Venezia di Vasari e di Francesco Salviati nel 1539 e con la conseguente eco del loro stile. La Raccolta della Manna e l’Elia potrebbero esser state realizzate nel 1543 e gli Evangelisti nel 1543- 1544.

Un discorso analogo si può fare per la parte bassa decorata da Romanino, collocando la Resurrezione di Lazzaro nel 1543 e gli Evangelisti nel 1544 come la Cena in casa del Fariseo.

Durante questi anni Romanino supera una fase neomedievale e risente dell’arte di Savoldo, ma ha alle spalle anche le esperienze in Vallecamonica e a Trento, dove sfoggiò il suo estro anticlassico.

 

FONTI TEOLOGICHE

I soggetti dipinti dai due artisti sono accumunati dal tema eucaristico e furono selezionati dai committenti, come specificato nel contratto di allogazione.

Una delle fonti del programma eucaristico fu i Sermones Quadragesimales et de santis, 87 sermoni scritti dal domenicano Gabriele da Barletta, pubblicati per la prima volta nel 1497-1498 e ristampati nel 1521, anno dell’inizio dei lavori nella cappella. Un antico incunabolo dei Sermones, oggi conservato presso la biblioteca comunale di Barletta, fu stampato proprio a Brescia.

Il frate Gabriele per spiegare l’Eucarestia utilizzò, per esempio, l’immagine di Elia nutrito dall’angelo, come prefigurazione dell’ostia consacrata. La Resurrezione di Lazzaro in questo contesto simboleggia il passaggio dalla morte del peccato alla vita della grazia.

Le scene raffigurate dal Romanino potrebbero prendere spunto anche dalle visioni della bresciana Maddalena Migliorati, che più volte descrisse di vedere un Bambinello Gesù sopra la patera eucaristica.
Il significato generale dei dipinti della cappella rimanda alla Storia della Salvezza nella quale il Mistero Eucaristico, cioè che ostia e vino sono vera carne e vero sangue di Cristo, è al centro della Rivelazione.
Questa storia inizia dalle antiche voci dei profeti del Vecchio Testamento, che reggono ognuno un cartiglio dove sono riportate le parole che prefigurano la venuta del Cristo. Attraverso i vari episodi narrati si arriva all’Ultima Cena, durante la quale fu istituita l’Eucarestia. E ciò che unisce inizio e fine di questo percorso salvifico sono gli Evangelisti, che testimoniano parole e gesti di Gesù.

 

MADONNA DEL TABARRINO

Particolare degno di rilievo fu il ritrovamento, tra gli altri, di un affresco raffigurante la Madonna che allatta il Bambino, che rivelava che la tela esposta all’altare del Callegari e nota alla devozione popolare come Madonna del tabarrino fosse una copia di quella appena scoperta. La copia è attribuita ad un pittore o ad una scuola di pregio, quale il Moretto.

A coronare lo studio si ritrovò anche la firma dell’artista dell’opera più antica: Paolo da Brescia, del quale non si conosceva praticamente nulla, ma che potrebbe essere identificabile con Paolo da Caylina il Vecchio. La data riportata con la firma pauli pictor(is) è del 1486.

Molteplici e stringenti appaiono i richiami tipologici, stilistici ed iconografici tra l’affresco e la tela conseguente con opere coeve dell’area lombardo-veronese. La postura della Vergine, l’elegante gioco delle mani a reggere il Bambino, lo sguardo che la Vergine scambia con chi l’osserva, insieme al trono.

Oggi il trono manca sulla tela ripresa dall’affresco riscoperto, poiché coperto da un cielo stellato nel 1880, quando l’architetto Tagliaferri restaurò sempre con un cielo a stelle d’oro anche la Cappella del Sacramento posta di fronte, coprendo le quadrature del Sandrini. Si ritrova così la particolare scenografia in cui le due figure recitano la sacra scena, come in una rappresentazione postmedievale.

Rispetto all’affresco, il pittore della tela concentra nel volto della Vergine, più che in quello del Bambino, una straordinaria sensibilità umana. Diversamente dall’affresco del 1486, la forma tende a risolversi in una specie di captante chiaroscuro che va a sostituire la statuaria fissità dell’originale.

Il riferimento da meramente iconografico si evolve quindi in un’opera in cui l’artista è pienamente consapevole delle sue doti. Non si limita ad eseguire una copia, ma la reinterpreta in una chiave di lettura più attuale.

Il cromatismo dai toni squillanti è articolato su contrasti di colori primari: il rosso del vestito della Vergine, il blu del manto, il bianco luminoso del velo e del vestito del Bambino e la fascia gialla alla vita di Gesù connettono la tela al linguaggio dell’area veronese, filtrato attraverso gli aspetti più classici dell’arte bresciana.

La pennellata risulta particolarmente sottile e rilisciata ed è tesa con una sicurezza ed una velocità notevoli.

Nel 1880 l’esteso intervento ha portato alla cancellazione del trono e all’adozione dell’espediente di racchiudere le due figure dietro un basso muretto, per creare l’illusione che la Vergine sia stata dipinta in posizione eretta e non seduta come in origine.

È stato inoltre raccordato il manto della stessa al nuovo fondo stellato, ornandolo di un fitto ricamo dorato che richiama nel disegno le stelle che riempiono il nuovo cielo posteriore.

Il culto dell’immagine risale alla seconda metà del XVII secolo. Durante i periodi di siccità persistente con minaccia ai raccolti, la municipalità ricorreva con funzioni e processioni cittadine lungo il corso della Mercanzia, l’attuale corso Mameli, sino al Duomo, portando in processione la venerata immagine.

Era persuasione comune che la pioggia fosse sicura ed immediata, tanto che i devoti in processione portavano un piccolo tabarro in uso per ripararsi dalla pioggia, ossia una mantellina a cappa, cerata.

Lo strepitoso ornamento in marmo che circonda l’affresco è opera della famiglia Callegari.

 

SACRA CONVERSAZIONE DEL ROMANINO

La pala è un olio su tavola di 156 x 154,5 cm, opera del pittore Girolamo Romanino.

Fu attribuita prima a Callisto Piazza, poi a Francesco Prata, finchè nel 1925 Nicodemi riconobbe la mano del nostro pittore e da allora l’attribuzione del dipinto non è stata più messa in dubbio.

Si tratta di una Sacra Conversazione, come indica anche il titolo ed è datata al 1509.

Quell’unico spazio condiviso da Maria e dai Santi, che costituisce la Sacra Conversazione, è articolato in altezza da troni e gradini e in profondità grazie dalla prospettiva.

La cornice adesso ha il ruolo di definire quel determinato luogo così che vengono progressivamente abbandonati i fondi in foglia d’oro che astraevano spazialmente la composizione. L’insieme è reso più umano e familiare dalla presenza di architetture e dai paesaggi. Il centro liturgico dell’immagine rimane la Madonna.

Santa Marta mostra i suoi attributi tipici: l’aspersorio e la tarasca al guinzaglio. Lo strano animale deriva dalla leggenda secondo la quale Marta approdò in Provenza per evangelizzare la zona: nei boschi di Tarascona domò un mostro, detto poi Tarasca, cospargendolo di acqua santa.

Sant’Onofrio è rappresentato come anacoreta, cioè come un eremita, anziano e seminudo, poiché rinuncia ad ogni vanità e bene materiale. I Santi sono disposti simmetricamente intorno alla Madonna, una costruzione della scena che ricorda la Pala di Castelfranco di Giorgione, 1503 circa.

Dietro la Madonna una quinta rocciosa, usata come trono sul quale siede e che chiude la scena, ma ai lati si aprono due splendidi e profondi paesaggi, dove si intravedono molto lontani i profili di costruzioni umane.

Il dipinto è di forte intensità cromatica, molto veneziana. I santi solidi e ben costruiti, sono in posa, disposti in semicerchio, espediente spesso usato dai pittori per dare l’idea di profondità. Solo Marta fa vagare lo sguardo verso di noi, gli altri protagonisti guardano la Madonna, come Rocco e Antonio, o altrove, come Onofrio.

L’intonazione della scena è piuttosto distaccata, il dialogo tra i Santi e la Madonna rimane tra loro, intimo e discreto; noi siamo spettatori, che non possono entrare all’interno del semicerchio.

Gli influssi individuabili in quest’opera di Romanino sono milanesi nella volumetria e veneziani nei colori e nelle pieghe degli abiti, secondo Alessandro Nova.

Essa potrebbe provenire dalla prima chiesa di San Rocco, edificata nel 1488 ed abbattuta nel 1516. La presenza di San Rocco va a conferma di questa ipotesi. Così come Sant’Antonio da Padova veste l’abito degli osservanti e non quello dei conventuali, perché la chiesa era retta dai francescani osservanti.

 

ALTARE MAGGIORE

Da uno scenografico drappo si affaccia Maria col Bambino tra i Santi Giovanni Evangelista e Battista, i due titolari della chiesa, Agostino e Agnese, i due protettori speciali della Congregazione dei Canonici Regolari Lateranensi, i quali officiavano la chiesa e abitavano nel convento annesso.

Le due mezze figure di frati oranti in basso sono probabilmente Innocenzo e Giovanni Casari, i due fratelli committenti e canonici di San Giovanni. Compaiono anche nella lunetta con l’Incoronazione della Vergine posta nella cappella del Santissimo Sacramento, sempre opera del Moretto.

La scena della Madonna in gloria tra Santi è costruita come una Sacra Conversazione.

La Vergine è seduta su nubi tra angioletti che le sollevano il manto, mentre sotto i suoi piedi fanno capolino teste di cherubini alati, Maria stringe a sé Gesù che la abbraccia e guarda in basso, dove sono le quattro bellissime figure di santi, dei quali due rivolgono il loro sguardo al cielo e gli altri verso di noi osservatori.

Lo schema della Madonna in gloria e la separazione tra la Vergine e le figure che stanno in basso attraverso una coltre di nuvole sarebbe mutuata dalla Pala Sacco di Paolo Morando, detto il Cavazzola, e dalla Pala di Pesaro di Savoldo, a loro volta debitori di Tiziano e Raffaello.

San Giovanni Evangelista ha in mano il vangelo semiaperto, sul quale leggiamo l’inizio del vangelo stesso. Sant’Agostino è vestito con ricchi abiti vescovili, Sant’Agnese tiene in braccio l’agnello, suo simbolo distintivo, e San Giovanni Battista indossa pelle di cammello.

Nel cielo verdino solcato da nubi che sfarfalleggiano e nelle figure dei due San Giovanni gli studiosi riconoscono un debole romaninismo. Invece, nei ritratti dei due fratelli Casari e nella monumentalità delle figure dei santi sono già evidenti l’equilibrio e la bravura del Moretto.

È favolosa la costruzione dei colori: si parte dai toni chiari dei due frati committenti che sostengono i rossi, i verdi, i gialli e i bianchi candidi che salgono verso il cielo dove è la Vergine tra verdi, viola e rosa.

La tela è custodita in una fastosa soasa in legno della seconda metà del Cinquecento.

Nella lunetta posta in alto vediamo un luminoso Padre Eterno con la colomba dello Spirito Santo e in basso una tempera piuttosto deteriorata che raffigura re Davide caratterizzato dallo strumento musicale e dal libro dei salmi. È strana l’unione di queste tre iconografie tra loro non perfettamente congruenti.

Per esempio, insieme alle figure di Dio Padre e dello Spirito Santo ci si aspetterebbe di trovare Gesù crocifisso o coronante la Vergine e non il Bambino tra le braccia della Madre.

Estranea alla tematica della sacra conversazione è anche il Davide musico. Forse un tempo quest’ultimo dipinto avrebbe dovuto ornare una cantoria o la balconata dell’organo.

Chiesa di San Giovanni evangelista facciata