Collegiata dei Santi Nazaro e Celso

ESTERNO
La chiesa viene citata fin dal 1104. L’attuale aspetto è il risultato di una ricostruzione avvenuta tra il 1752 ed il 1780 sul progetto di due architetti bresciani: il canonico Giuseppe Zinelli e l’abate Antonio Marchetti.

La facciata è sobria ma imponente, dominata dalle alte colonne con capitello corinzio che sorreggono il timpano triangolare. Al di sopra trova posto una balaustra ornata di sette statue in marmo del 1785: San Nazaro, San Marco, San Giovanni, il Cristo Redentore, San Matteo, San Luca e San Celso.

Sopra il grande portale d’ingresso si vede il busto di Alessandro Fè d’Ostiani, a cui si deve la ricostruzione settecentesca della chiesa, scolpito da Beniamino Simoni nel 1786.

L’intitolazione della chiesa ricorda due santi di epoca romana: Nazaro, cittadino romano, discepolo di San Pietro, che battezzerà Celso, di origine francese, e moriranno insieme durante le persecuzioni di Diocleziano.

 

INTERNO
L’interno della chiesa appare luminoso ed ordinato, grazie alla sequenza di colonne con capitello corinzio addossate alla parete e agli archi a tutto sesto che inquadrano cinque cappelle per lato. Ogni cappella ospita un altare.

Entrando, si oltrepassa un pronao o vestibolo di forma rettangolare, dove si trovano due confessionali neoclassici e le belle ante d’organo di Paolo da Caylina e da qui di accede alla navata.

 

ALTARE DEL SANTISSIMO SACRAMENTO

L’altare custodisce la tela di Alessandro Bonvicino, detto il Moretto con il Cristo con i simboli della passione tra Mosè e Salomone, olio su tela centinata, cioè terminata in alto a semicerchio, datata 1541- 1542. Fu commissionata dalla Confraternita del Santissimo Sacramento, che era presente in San Nazaro come nelle più importanti chiese di Brescia e provincia.

I committenti vollero che la pala fosse didattica. A questo servono le tre tabelle marmoree con iscrizioni incise, rette da Mosè, dall’angelo e da Salomone.

La lettura dei testi biblici deve partire dall’angelo che reca una frase tratta dal Vangelo di Matteo, capitolo 26, versetto 28: “questo è il sangue della Nuova Alleanza“.

Si prosegue con la tavola di Mosè a sinistra, la cui iscrizione è tratta dall’Esodo, capitolo 16, versetto 15: “questo è il pane che il signore vi ha dato da mangiare”.

Si termina con la tavola di Salomone a destra, considerato autore del Cantico dei Cantici, da cui è presa la frase, leggermente modificata, al capitolo 15, versetto 1: “mangiatene, amici carissimi ed inebriatevi“. Il tema è chiaro: si parla di pane, inteso come pane di vita, e di sangue salvifico.

Moretto, uomo di fede, lesse senza dubbio anche il libro Beneficio di Cristo, stampato ufficialmente a Venezia nel 1543, ma terminato almeno un anno prima. In esso viene spiegata anche a livello visivo la Salvezza, operata da Cristo, tramite il suo sacrificio.

Nel libro sono trattate tematiche già dibattute da tempo e che erano diventate urgentemente d’attualità con il dilagare della riforma protestante. Sul tema della Eucarestia, essa negava la trasformazione del pane e vino in corpo e sangue di Cristo, cosa che invece venne ribadita dalla chiesa di Roma.

Il Cristo in passione diviene così allegoria della Chiesa che soffre sotto i colpi della riforma. Ma Cristo è comunque garanzia di salvezza per ognuno e le opere del Moretto degli anni Quaranta trovano tutte ispirazione dal libretto Beneficio di Cristo molto diffuso ai tempi.

Il tema altissimo a livello teologico è trattato dal pittore in maniera diligente, ma poco entusiasmante dal punto di vista dell’invenzione creativa.

Si accentua la sobrietà della gamma cromatica, preziosa ed argentea. Moretto riduce tutto all’essenziale. La passione di Gesù è rappresentata dagli instrumenta passionis con la calma serenità tipica della poetica del pittore e della filosofia del Beneficio di Cristo. E ciò che la tela insegna è che la Salvezza di Cristo opera attraverso l’imitatio Christi e la contemplazione dell’imago Christi.

La composizione è verticale, piramidale, ascensionale. È presente la consueta divisione tra piano divino in alto e piano umano in basso, separati da una coltre di nuvole.

Mosè e Salomone indossano abiti all’antica, trattati con la solita maestria del Moretto, che è capace di rendere visivamente la sensazione tattile della stoffa. Il copricapo a turbante suggerisce la provenienza mediorientale dei due uomini.

Sono costruiti in maniera parallela, ma opposta uno all’altro: Mosè guarda Gesù, Salomone guarda noi spettatori. Fissare fuori dalla tela è un espediente usato nella storia dell’arte per coinvolgere anche emotivamente chi guarda la scena.

Proseguendo nell’indagine del sapiente gioco di opposti proposto dal maestro, notiamo che Mosè ha le gambe aperte, Salomone le ha incrociate. Uno ha le braccia quasi conserte, l’altro indica Gesù. Salomone non solo ci sta guardando per catturare la nostra attenzione, ma segna senza equivoci quello che dobbiamo osservare con attenzione.

In mezzo ai profeti vola l’angelo, rappresentato di scorcio in un bel movimento leggero e flessuoso. Con il braccio destro regge il calice, che raccoglie il prezioso sangue di Cristo, il quale diverrà vino eucaristico durante la messa. La posizione dell’angelo con l’abito che svolazza genera una fuga prospettica.

Dietro i profeti e l’angelo si apre un interessante paesaggio lacustre, dove architetture rinascimentali si mescolano a rovine più antiche. Il paesaggio orizzontale smorza appena la fuga verticale del dipinto e crea una buona profondità.

Tra i profeti e lo sfondo svetta un alberello di fico posto lungo un piano intermedio, l’albero della vita, della luce, della forza e secondo una lunga tradizione rappresenta l’asse del mondo, che collega la terra al cielo.

Val la pena di dare uno sguardo a tutte le mani del dipinto, molto espressive, grazie al chiaroscuro che le costruisce con un’evidenza tridimensionale notevole. Salomone ci indica Gesù. Elegante e curatissimo è il panneggio del perizoma, che si muove come mosso da una sorta di vento divino, presente solo in questa parte della tela e non al livello umano dei profeti.

La resa anatomica di Gesù è perfetta: d’altra parte la capacità grafica di Moretto non è mai posta in dubbio. Attorno a lui degli angioletti reggono gli strumenti della sua passione. Da sinistra vediamo la lancia di Longino, la croce, la colonna della flagellazione, la corona di spine e la canna con il panno imbevuto d’aceto. La lancia e la canna continuano in verticale le linee di forza di Mosè e Salomone. Ma convergono leggermente verso il centro, dove è il corpo di Cristo, fulcro della composizione.

Al di sotto delle figure e dei colori è presente una sorta di griglia geometrica sulla quale Moretto ha poi costruito la scena. Questo metodo operativo era tipico dei pittori rinascimentali e le opere del Moretto appaiono tanto equilibrate anche grazie a questo importante momento preparatorio.

 

ALTARE DI SAN GIOVANNI NEPOMUCENO

La bella statua in marmo raffigura il Santo del XIV secolo che, avendo rifiutato di rivelare al re Venceslao IV di Praga i segreti appresi durante la confessione, venne torturato e annegato. Fu canonizzato nel 1729 e subito divenne un martire caro ai canonici di San Nazaro, assidui praticanti del sacramento della confessione.

Nacque la Congregazione dei Reverendi sacerdoti sotto la protezione di San Giovanni Nepomuceno, che commissionò altare e sculture. Antonio Calegari lavorò alla statua dal 1750 al 1756, che fu poi posizionata nella nicchia dell’altare nel 1762.

La possente figura è giocata su guizzi di luce e pause d’ombra ottenuti con il virtuoso trattamento delle superfici e dei panneggi delle vesti.

Il Santo tiene in mano il crocifisso, sostenuto anche da un angioletto colto in un volo quasi acrobatico. In basso a destra un secondo angelo tiene in mano la palma del martirio e mette un dito sulla bocca, per indicare il segreto della confessione. Un terzo angelo è disteso e appoggiato sulla berretta del Santo. Testine di cherubini animano ulteriormente la composizione.

Le due sculture laterali, raffiguranti l’Umiltà (secondo alcuni la Fede) e la Fortezza (con la colonna) appaiono più mediocri e sono attribuite alla mano di Gaetano Dionisi.

L’altare che accoglie la statua di San Giovanni Nepomuceno è del Settecento, con belle colonne di breccia violacea, un timpano curvo spezzato ed uno più alto di forma triangolare. Volutelle di ottima linea affiancano la mensa dell’altare e richiamo quelle che sorreggono le due Virtù del Dionisi. Al centro della composizione architettonica si incastona la nicchia che accoglie la statua di San Giovanni.

Gli autori dell’altare sono i fratelli rezzatesi Gian Francesco e Giacomo Scalvi. Essi realizzano l’altare tra il 1758 ed il 1759.

Nel 1782 si decise di modificarlo per renderlo più sontuoso. Venne perciò chiamato Faustino Maggi che terminò il rifacimento in tre anni. L’altare che oggi ammiriamo è il risultato di questo intervento.

 

POLITTICO AVEROLDI

Questo capolavoro è opera di Tiziano, famosissimo maestro veneziano del Rinascimento.

Il polittico Averoldi, così chiamato dal nome di chi lo commissionò al grande artista. Giunse a Brescia nel 1522 ed influenzò tutta l’arte bresciana a lungo.

Nel 1520 Tiziano inizia la lavorazione del Polittico Averoldi che raffigura il Cristo Risorto tra Santi con in alto una delicata Annunciazione a completamento dell’opera.

Appare strana la scelta di usare l’arcaica partitura spaziale e iconografica di un polittico. Ma forse la destinazione provinciale o i gusti antiquati del committente, il cardinale Altobello Averoldi, giustificano questo salto indietro.

Tiziano utilizza un sofisticato gioco di spazi, forme, corpi, sguardi e gesti che si contrappongono, si richiamano e insieme superano la divisone spaziale in scomparti separati.

Nello scomparto di destra, il bel San Sebastiano ha tutto il corpo in torsione. Spicca la forte muscolatura come di un giovane atleta in abbandono: la spalla, il torso e il braccio alzato richiamano lo Schiavo morente e la postura delle gambe lo Schiavo ribelle scolpiti da Michelangelo. Un’unica freccia trafigge il costato di Sebastiano ed è il suo tipico attributo, legato alla storia del suo martirio. Il volto malinconico e gli occhi abbassati sono un brano di poetica umanità.

Il cielo sullo sfondo ed il paesaggio soffuso esaltano la sua figura, solida come la liscia colonna sulla quale poggia il piede destro e su cui Tiziano lascia la sua firma unita alla data di consegna del polittico, il 1522.

A sinistra in secondo piano si scorge una figuretta d’angelo intenta a soccorrere un uomo. L’uomo è San Rocco, che spesso ricorre nelle immagini sacre unito a San Sebastiano, i protettori contro la peste.

Contrapposto in diagonale al San Sebastiano vi è l’angelo annunciante, dotato di una bellezza realmente angelica. È totalmente candido eccezion fatta per il nastro color rubito drappeggiato a cintura. Gabriele svolge un cartiglio che riporta le parole con le quali saluta la Vergine annunciata: ave gratia plena.

Maria è di fronte a lui, invasa di luce e con gli occhi timidamente abbassati, il gesto della mano aperta poggiata sul petto indica umiltà.

Lo scomparto centrale riassume tutto lo splendore del polittico. Il Cristo risorto, la cui postura ricorda il Laocoonte ritrovato nel 1506, si staglia su un cielo colto nei colori di un tramonto nuvoloso.

La mano destra di Gesù regge un vessillo crociato, i cui colori riportano all’arcangelo Gabriele, la sua mano sinistra tocca quasi il bordo della cornice e spinge il nostro sguardo verso Maria. Un piede poggia su un sottile strato di nuvole, l’altra gamba piegata all’indietro crea attorno a sè uno spazio profondo. Il vessillo e l’elaborato perizoma di Gesù svolazzano nel cielo che imbrunisce ed esalta il loro bianco.

Il paesaggio cupo e drammatico in secondo piano è tra i più belli di Tiziano.

L’ultimo pannello contiene quasi a fatica i due Santi Patroni della chiesa ed il committente. Il cielo alle loro spalle li ricollega alla scena dello scoparto centrale, annullando la separazione fisica.

Anche la luce unifica: è serale, oscura stoffe e carni, ma guizza improvvisa sul metallo delle armature per poi tornare ad addensarsi su tutto.

Il significato teologico del polittico è espresso chiaramente: l’Averoldi volle esaltare il concepimento virginale di Maria, la divinità di Cristo, il contenuto salvifico della passione e risurrezione ed infine una concezione trionfante della fede, espressa nella figura del Cristo al centro.

La scelta del polittico a questo punto era funzionale per la trasmissione del messaggio così che ogni scomparto enunciasse un concetto.

La cornice che racchiude oggi il Polittico Averoldi non è quella originale. In passato esso era protetto da due grandi ante, ma nulla si conosce di quell’ancona lignea dorata. Essa fu sostituita con quella attuale tra il 1824 ed il 1826.

Una curiosità: nel settembre del 1519 Alfonso I d’Este tramite il suo ambasciatore a Venezia sollecita Tiziano perché porti a termine un lavoro che gli era stato commissionato da tempo.

L’ambasciatore riferisce che il ritardo è causato da Altobello Averoldi, che ha richiesto un’opera pittorica all’artista e l’esecuzione di tale opera prevarica gli altri lavori già iniziati. Tiziano in quel momento ha molte commissioni ed è incapace di dire no a committenti d’alto rango.

Nel novembre del 1520 l’ambasciatore vede nello studio del pittore la tavola con il San Sebastiano ormai ultimato e scrive subito al suo signore, spronandolo all’acquisto dell’opera.

L’ambasciatore pianifica quindi un vero e proprio furto del San Sebastiano e Tiziano pur con qualche perplessità acconsente alla messa in scena  Il tutto viene pianificato nel corso del dicembre 1520.

Tuttavia, è proprio il duca Alfonso ad un certo punto a tirarsi indietro, forse intimorito dall’autorità dell’Averoldi, che è nunzio apostolico presso la Serenissima.

Negli schizzi preparatori conservati a Francoforte e Berlino si vede il San Sebastiano legato ad una colonna e non ad un albero come è nel polittico in San Nazaro.

Lo stesso ambasciatore, descrivendo l’opera, riferisce di una colonna. Forse la prima versione del San Sebastiano lasciò davvero la bottega di Tiziano, ma alla volta della corte di Mantova, dopo il rifiuto del duca di Ferrara. Se ciò avvenne, l’Averoldi non lo seppe mai.

Comunemente si ritiene che un tale evento non sia mai accaduto, che l’ambasciatore per uno scherzo della memoria riportò la descrizione della colonna al posto dell’albero e che la realizzazione del polittico abbia seguito un percorso senza intoppi.