La Galleria del Cinquecento e del Seicento, l’ultima del Museo Diocesano di Brescia, è organizzata secondo due principi pensati per i visitatori. Il primo è quello di mantenerne intatto il viaggio dentro ai capolavori della pittura bresciana, non mancando di deliziarli con qualche piccolo tesoro in più. Il secondo è di accompagnarli alla scoperta delle altre due sezioni del Museo, l’Argenteria e Oreficeria e le Icone Russe, prima di indicargli l’uscita. Uscendo dal secondo corridoio, i visitatori si trovano di fronte alla monumentalità delle Ante d’Organo dipinte dal Moretto (1498-1554) per la chiesa di San Pietro in Oliveto. Si tratta di quattro immense tele dipinte con la tecnica della tempera, che purtroppo hanno perso la loro originale gamma cromatica. Restano però ancora meravigliose per la magnificenza delle figure, perfettamente manieristiche nel richiamo agli stili di Raffaello (1483-1520) e di Tiziano (1498-1576). Accanto a loro si trova la Pala Luzzago, altra opera tarda del Moretto. Anche qui si avvertono gli echi manieristici e la bellezza classica di Raffaello, uniti ad una gamma cromatica più spenta che non manca di donare un tocco di bellezza. Di fronte alle Ante d’Organo si trova invece la Pala Avogadro di Gerolamo Romanino (1486-1560). È una delle opere mature dell’artista, proveniente dalla chiesa di San Giuseppe e un tempo custodita nella Pinacoteca Tosio-Martinengo di Brescia. Si avverte infatti la collaborazione con il genero Lattanzio Gambara (1530-1574) nella ricerca di un nuovo modello compositivo. L’architettura, opera del Gambara, ha infatti una sua forte rilevanza, mentre le figure, dipinte dal Romanino, acquistano una nuova pienezza di colori, forme e volumi. Proseguendo per la Galleria del Cinquecento e del Seicento, si arriva ad un’altra opera proveniente dalla Pinacoteca: l’Ultima Cena di Paolo da Caylina il Giovane. La tela, di inizio Cinquecento, è messa a confronto con altri due omonimi soggetti dipinti da Giuseppe Amatore (XVII-XVIII secolo). Il pittore mostra qui un linguaggio di chiara ascendenza foppesca ma aggiornato agli stili più moderni del suo tempo, partendo da quello del Romanino. Di fronte ai tre Cenacoli c’è una Pietà firmata nel 1575 da Pietro Maria Bagnadore (1550-1627), meglio conosciuto per i suoi interventi di architettura. Fu infatti direttore del cantiere del Duomo Nuovo e autore della chiesa di Santa Maria del Lino e del rifacimento della chiesa di Sant’Angela Merici. La Pietà è una delle sue opere giovanili, realizzata con delle stesure cromatiche di stampo manierista abbastanza fragili. Elemento fondamentale è lo scorcio diagonale del Cristo morto, desunto da modelli emiliani e velato da velate ombreggiature per sottolinearne la carica drammatica. Altro capolavoro bresciano, realizzato a inizio Seicento, è la Trasfigurazione di Antonio Gandino (1560-1631) sita quasi dirimpetto all’uscita sul loggiato del Museo Diocesano. Nonostante la gamma cromatica sia molto impoverita, l’opera spicca per l’eloquenza delle pose ispirata sia allo stile di Palma il Giovane che dei fratelli Carracci. Sul soffitto della Galleria del Cinquecento e del Seicento, inoltre, sono appese quattro tele ovali di Pietro Marone sulla Vita di San Pietro. L’allestimento non deve stupire, poiché si ispira alla posizione originale degli artefatti sul soffitto della vecchia cattedrale bresciana di San Pietro de Dom. Un vero e proprio tesoro è invece posto ancora all’inizio della galleria, accanto alla Pala Luzzago e alla Pala Avogadro. Si tratta di un Ecce Homo dipinto ad olio su pietra, il cui volto è ispirato al Cristo Risorto del Polittico Averoldi di Tiziano. La critica riconosce infatti nel pittore un artista molto vicina alla cerchia del Tiziano, se non addirittura un suo allievo.

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